venerdì 29 novembre 2019

4. Tuo cugino si è sposato e aspetta un figlio




In fondo se lo continuava a chiedere insistentemente se non avesse fatto l’ennesima “Thierrata”. E sì che ne aveva fatte tante in passato. Ma questa volta non avrebbe avuto modo di rimediare. No, un figlio è per sempre.
Cugino di un alto funzionario del Partito Socialista, che ne aveva scalato pazientemente l’intera gerarchia, passando dall’irrilevante incarico di membro della locale sezione di Mons fino ad arrivare ad occupare l’ufficio più prestigioso con grandi finestre che si affacciavano sulla Chapelle a Bruxelles; lui, Thierry, era sempre rimasto in sospeso: l’università lasciata lì ad un esame e la tesi già concordata con il professore amico del cugino, un lavoro impiegatizio in una banca mollato dopo un paio di anni, cosa che aveva fatto irritare non poco il cugino proprio in considerazione dell’amicizia che legava quest’ultimo al direttore generale dell’istituto. E anche con Hélène, l’ultima compagna conosciuta una sera a casa di amici, era finita senza mai che avesse deciso che fosse veramente finita; così e alla fine più per inerzia che per consapevole scelta non si erano più cercati e la relazione era morta senza che nessuno avesse celebrato un funerale accompagnato dalla conseguente elaborazione del lutto.

“Thierry”, le ricordava spesso la madre “ma quand’è che ti sistemi? Hai visto che tuo cugino si è sposato ed ora aspetta anche un figlio?”

Thierry era così scivolato progressivamente dentro i suoi quaranta anni senza farci troppo caso: aveva solo girato un foglio del calendario appeso alla parete e realizzato che tre settimane prima era stato il suo compleanno. La barba curata, gli occhiali con la grossa montatura nera, un foulard indossato con classe e la matita a coprirgli gli occhi incavati dall’assenza di sonno. I capelli folti e neri venivano spesso fermati con un po’ di gel e mostravano già alcune calvizie ai lati. Vestiva con una certa ricercatezza. Spesso in giacca.
Di tanto in tanto durante una sbronza solitaria a casa, su al quinto piano, usciva sulla terrazza a fumarsi una sigaretta e guardando lì in basso si chiedeva se non fosse stata la soluzione più facile. Dieci secondi, o anche meno da quando aveva messo su un po’ di peso, e non avrebbe dovuto più rendere conto di niente a nessuno. Tanto meno al cugino.
Ma poi una sera solo tre mesi fa ad una cena organizzata proprio dal cugino per presentarle qualcuno aveva incontrato Annalisa. Ed era stato il punto di svolta che aspettava da sempre. Giovane e già membro del gabinetto di un “échevin” ai lavori pubblici, spietata, con un matrimonio fallito alle spalle e un figlio di cinque anni che divideva con l’ex marito. Si erano immediatamente trovati. La determinazione di Annalisa combaciava perfettamente, come due pezzi di un puzzle su cui sta per planare un gatto indisciplinato che manderà presto tutto all’aria, con la sua indeterminatezza. Erano perfetti.  “Con lei”, pensava (no, forse pensare non è il verbo giusto; sentire o forse sperare sarebbe meglio) “posso riempire quei buchi esistenziali grandi come Giove.” E già un mese fa la più bella delle notizie: Annalisa le aveva comunicato che aspettava un bambino da lui.
“Dormi a casa mia questa sera?” chiese lei.

“Stasera, non ce la faccio. Ho casa sottosopra: non ci passo da qualche giorno. E devo dare una sistemata” rispose lui baciandola un bacio “ti chiamo più tardi” concluse poi.


Tornò a casa, gettò sul tavolo di fronte alla grande finestra la posta accumulata che gli aveva lasciato la portinaia. Si sbarazzò stancamente del cappotto appoggiandolo sul divano accanto all’enorme schermo al plasma e si aprì una bottiglia di vino. Prese le sigarette, uscì sul terrazzo e inspirò a pieni polmoni, mentre da sotto gli arrivano le voci un gruppo di ragazzini che tiravano calci ad un pallone nel parchetto con le altalene.



venerdì 22 novembre 2019

5. La notte di amore che salvò Luis




“È bellissimo!”, esclamò lei “fra poco sarà il tuo compleanno. Dobbiamo assolutamente attendere che scocchi la mezzanotte e poi fare subito un brindisi.” “Ma che brindisi e brindisi: domani mattina devo svegliarmi presto che al lavoro mi hanno cambiato il turno e poi con questi brindisi si sa come va a finire” rispose lui “finiamo che ci sbronziamo e domani farò pure tardi.” “Ma a che ora sei nato?” chiese lei sapendo che l’avrebbe comunque convinto “alle due di mattina del 22 marzo 1982 e quest’anno compirò 34 anni. Madonna quanto sono vecchio!”
Gli ultimi mesi erano stati carichi di nervosismo per Luis e Anna dal momento che non solo avevano dovuto traslocare due volte nel giro di pochissimo tempo, cosa che aveva creato malumori e piccole discussioni tra loro, ma si era anche aggiunta l’inquietudine che andava aumentando di giorno in giorno a seguito dell’allerta terrorismo diramata dai bollettini ufficiali emessi dall’OCAM e dal passaparola tra gli amici. I militari con caschi e tute mimetiche presidiavano non soltanto i centri del potere ma anche le piazze e le vie dove i brusselesi si incontravano per sorseggiare una Leffe o per acquistare la spesa della settimana. La città era sospesa in una atmosfera di angoscia e si interrogava quando e dove sarebbe successo. Il nome di Salah Abdeslam veniva sussurrato con circospezione e l’accento con cui veniva pronunciato di volta in volta migliorato.

In molti sostenevano che no, qui non sarebbe accaduto nulla: la NATO, le Istituzioni, le moschee controllate; no, qui no: un mantra ripetuto tante volte con lo scopo tacito di allontanare da sé l’ansia che pervadeva l’esistenza.

Inoltre, questa era l’opinione di tanti, c’era già stato il Bataclan a far tremare il cuore di tutti e a renderli sospettosi di ogni persona dai tratti vagamente nordafricani.
“Madonna, se sono vecchio!”, esclamò nuovamente Luis controllando l’orologio per vedere quanto mancasse al suo compleanno.
Stavano insieme da due anni e si erano incontrati qui a Bruxelles al ristorante asturiano dove lui faceva il cameriere. Era una calda serata di giugno quando Anna l’italiana, insieme ad un gruppo di spagnoli, aveva deciso di andare al Cabraliego per bere il famoso sidro del locale. Di lì a qualche settimana avevano affittato uno studio assieme. Luis aveva cambiato numerosi lavori ed ora controllava l’ingresso di un parcheggio non molto distante dalla zona delle Istituzioni e più precisamente tra le stazioni della metro di Maalbeek e quella di Art-Loi, proprio a due passi da rue de la Science. 
“Eddai che non facciamo tardi: solo un brindisi” le disse Anna accovacciandosi sul divano mentre Luis aveva già messo in un angolo la divisa della società di parcheggi per la quale lavorava in modo da averla pronta l’indomani. “Un brindisi solo, però. Ok?” le intimò tornando indietro dopo aver controllato la temperatura dello spumante Delhaize “365” dentro il congelatore. Arrivata la mezzanotte la tirarono fuori e tra un brindisi ed un altro se la scolarono al volo. “Senti” domandò allora lei “perché non apriamo anche quel rosso che hai portato il mese scorso da casa?” “Quale rosso? Ma non l’abbiamo già bevuto” replicò Luis cominciando a sentire l’effetto della bottiglia appena consumata. “Quello che ti ha regalato tuo sorella… come si chiama?” fece lei alzandosi dal divano e andando alla finestra per fumarsi una sigaretta. “Boh… prendiamo questo Nero d’Avola che hai comprato te a Natale” consigliò lui abbassandosi per afferrare la bottiglia che si trovava accanto alla piccola libreria colma di volumi.

Luis e Anna si sbronzarono e fecero l’amore tutta la notte.


E quando la sveglia puntata alle otto, giusto in tempo per farsi una doccia e scappare al lavoro per timbrare alle nove e mezza suonò, la spensero, e continuarono a dormire. Luis mancò così l’appuntamento con il vagone della linea 5, esploso mentre ripartiva dalla stazione di Maalbeek, che prendeva ogni volta che faceva il turno del mattino per andare alla società di parcheggi dove, il 22 marzo 2016, una notte di amore gli aveva impedito di andare. 


venerdì 15 novembre 2019

6. Come evitare di farsi derubare quando si cerca casa a Bruxelles





“Mara, mi raccomando: fai un favore a mamma e domani mattina vacci davvero alla polizia. Non fare come il tuo solito, va bene? ”
“Va bene… va bene… domani mattina ci andrò presto, non preoccuparti”, disse sbuffando e chiudendo la chiamata con la madre che si trovava in Piemonte tanto, pensava, non li riprenderò mai questi duecentocinquanta euro che, mannaggia a me, ho versato alla tipa.
Mara Sinclari era una giovane studentessa appena arrivata a Bruxelles per un master all’ULB e prima di arrivare in città e di cominciare le lezioni aveva provato a trovare una stanza condividendo nei vari gruppi su Facebook il seguente annuncio: “Sarò a Bruxelles per ragioni di studio dai primi di settembre 2019 e cerco una camera singola con spesa massima cinquecento euro, tutto incluso. Contattami in PVT.” Una signora gentile con un francese zoppicante le aveva immediatamente risposto dicendole di avere giusto giusto una cosa fatta per lei, che costava anche meno, e in una posizione assai comoda, chiedendole se potessero sentirsi già domani per i dettagli.
Quando Mara arrivò di fronte al grande portone dell’edificio della polizia di Bruxelles 1000, situato in pieno centro praticamente alle spalle della Grand Place, normalmente presidiato da due enormi uomini in divisa, con i vetri rettangolari sopra cui campeggiava la scritta “Division Centrale de Police - Politie Middenafdeeeling” uno dei due poliziotti all’ingresso le domandò cortesemente “Signorina: dove va?” ottenendo una risposta lapidaria “mi hanno truffata e dovrei fare una denuncia. Che cosa devo fare?”
Sul lato opposto della strada e, più precisamente, al caffè Capital, affollato come sempre di turisti giapponesi e americani, una signora leggeva un articolo di Jonathan Blizer sul New Yorker sorseggiando una varietà di caffè che arrivava dalla sperduta regione di Kaffa quando, alzando lo sguardo dal giornale, vide una ragazza bruna, alta e magra con i capelli raccolti in una coda gesticolare con i poliziotti e poi un secondo dopo sparire inghiottita dentro il palazzo. Mara salì infatti le poche scale che la separavano dall’accettazione, e raccontò quanto successo alla impiegata dietro il grosso vetro che le ordinò di compilare un modulo e poi di attendere di essere chiamata.
“Allora ci sei andata alla polizia?” le arrivò un messaggio su WhatsApp dalla madre al quale rispose subito infastidita “sì, sono qui proprio ora. Ti faccio sapere quando ho finito.”
La Divisione centrale della polizia era un via vai di persone e l’atrio, circondato da tre porte che si aprivano e chiudevano continuamente, veniva più volte attraversato da poliziotti alti e robusti che trascinavano ragazzi riottosi con le manette color alluminio. “Su, sbrigatevi. Andiamo! State vicini, così” bisbigliava un tizio in borghese con un cappello hippie ad un nero ammanettato.
“Sinclarì” gridò una voce che giungeva da dietro il grosso vetro dell’accettazione, “Sinclarì!” ripeté nuovamente la voce di una donna che invitava Mara ad entrare dalla porta a destra.
“Si accomodi”, disse un poliziotto gentile indicandole una sedia dietro una scrivania “che cosa è successo? Anzi… mi dica prima il suo nome, la sua data di nascita e la sua residenza qui a Bruxelles”.
“Mi chiamo Mara Sinclari e sono nata a Cuneo il 10/10/1995 e abito a rue Franklin, 49.”
“Che cosa è successo, dunque?”
Mara raccontò allora della signora gentile conosciuta su Facebook e delle sue insistenze affinché le inviasse il denaro per bloccare la stanza e disse anche delle rassicurazioni fornitele rispetto alla restituzione della medesima casomai la stanza non le fosse piaciuta.
“E di quanto era la caparra?” chiese scuotendo la testa il poliziotto.
“Duecentocinquanta euro”, rispose Mara vedendo arrivare un messaggio dalla madre.
“E poi che è successo?” domandò ancora il poliziotto voltando lo sguardo verso il computer dove annotava sconsolato le informazioni che raccoglieva.
“Niente. Quando poi ho mandato un’amica per vedere l’appartamento, così da decidere se prenderlo o meno, la mia amica si è trovata di fronte solamente un vecchio palazzo diroccato. E niente altro. Allora ho chiesto spiegazioni alla signora tramite la chat di Facebook e lei, prima mi promise che mi avrebbe dato i soldi indietro e poi dopo un po’ ha smesso di rispondere ai miei messaggi. Tutto qui. E ora?”
“E ora…” sospirò il poliziotto “e ora nulla… intanto registro questa denuncia ma credo ci sia veramente poco da fare. Ne ho sentite così tante di storie come queste: mai inviare denaro per bloccare una stanza. Mai! Lo consiglio sempre e mi dispiace tutte le volte sentire storie di ragazzi e ragazze come lei truffati in questo modo.”

venerdì 8 novembre 2019

7. La stagione dopo le piogge



“Emanuele, dove dobbiamo prendere la metro?” mi chiese Pietro continuando a sbattere sul bicchiere il tuorlo d’uovo che aveva zuccherato abbondantemente.
“Secondo me conviene camminare fino a porte de Namur e poi da lì prendiamo la due per andare verso il meeting. Comunque vediamo cosa dice Google Maps così siamo sicuri di non commettere errori.”

“Ok. Dimmi pure quando ci dobbiamo muovere così finisco la colazione ed usciamo”, mi rispose dopo aver dato l’ultima cucchiaiata al suo zabaione.

Il vecchio edificio coloniale si trovava all’incirca a metà della strada ripida che scendeva verso il fiume dove le donne con la bacinella sulla testa portavano a lavare i panni tre volte alla settimana. Con la fine della stagione delle piogge anche esso, al cui interno al primo piano avevamo vissuto sin dalla mia nascita, sembrava aver voglia solo di scrollarsi di dosso tutta quell’acqua caduta negli ultimi tre mesi. E sì che le piogge venivano augurate, desiderate e talvolta invocate in quanto la loro assenza era chiaramente un segno di sventura che si addensava per i mesi a venire. L’appartamento era minuscolo per poter contenere tutti quei cugini che l’avevano scelto come dimora abituale durante la settimana e aveva le assi del pavimento scricchiolanti e le mura da ritinteggiare ma, trovandosi a poca distanza dal centro e dalla scuola, conferiva un certo status alla mia famiglia che sovente lo faceva discretamente trasparire. Dall’altro lato della strada, in un complesso di case più moderne e recintato dalla lamiera ondulata viveva mia nonna, una signora alta, austera e con una grande fascia sul capo perennemente indossata a coprirle i capelli bianchi.

“Manu? Sei pronto? Guarda che fai tardi a scuola stamattina. Ti ho già preparato la merenda e la devi solo mettere nel cestino. Dai!”

“Sì, mamma. Sono quasi pronto. Finisco lo zabaione che mi hai preparato, mi metto il grembiule e sono pronto.”
Lo zabaione soffice in cui di tanto in tanto lei ci metteva del latte, quasi fosse un premio perché il giorno prima non mi fossi attardato con i pantaloni da indossare, con le scarpe da allacciare o con il giubbino ancora da allacciare, segnava per me non solo la fine della stagione delle piogge ma anche l’anno scolastico che ripartiva con le mattinate da passare dentro un’aula invece che scorrazzare a piedi scalzi sulla strada davanti casa dove poi, alle sei della sera quando il sole era tramontato da qualche minuto, la donna tuttofare sarebbe venuta a recuperami, chiamandomi per nome, in mezzo ad un nugolo urlante di altri bambini.
“Quante volte ti ho detto di non sporcarti tutto? Guarda come sei conciato, tutto nero! Se ti vede tua madre! Dai su muoviamoci!” si lamentava stringendomi per mano mentre si aggiustava il telo dietro le spalle che copriva suo figlio addormentato.
“Ancora un minuto, dai! Solo un minuto” frignavo mentre lei mi trascinava dentro casa dove intanto aveva preparato la tinozza per farmi il bagno caldo.
“Su, su, dai andiamo che tra poco arriva la mamma e se ti trova in questo modo sono guai. Per te e per me. Dai, su che dobbiamo fare il bagno, cenare e metterci a nanna che domani c’è la scuola.”
“Ancora un momentino, su!” cercavo di ribellarmi mentre ero ormai sulle scale dell’ingresso e quasi prossimo ad attraversare l’uscio.
“Lo vuoi lo zabaione domani mattina?” mi chiese lei addolcendo lo sguardo “guarda che se non entriamo dentro subito, dico alla mamma di non preparatelo.”
”Emanuele, ma a che ora è esattamente il meeting?” mi chiese nuovamente Pietro per poi aggiungere “ma cos’è che stavi pensando?”


“Allo zabaione, Pietro. Era buono quello che hai fatto?”



venerdì 1 novembre 2019

8. Hai da accendere, per favore?






Faceva freddo e una leggera pioggia scendeva a bagnargli il cappello calzato leggermente sulla testa. Prese l’accendino dalla tasca e si accese una canna d’erba con un filo di tabacco dentro. Tirò una lunga soffiata e voltò a destra come d’abitudine per la sua passeggiata serale. Qualche ora prima aveva pagato l’affitto e fatta la spesa per tutta la settimana al Colruyt e buttato gli ultimi dieci euro per comprarsi una bustina di erba. E poi, aveva pensato, prossimamente si vedrà.
Cristo, quanto cazzo è brutto bestemmiare dietro ai soldi che non ci sono, continuava a tormentarsi aspirando subito un’altra boccata. Dicono che non facciano la felicità, dicono; ripeté nuovamente scuotendo la testa. Ma questa è una cosa dei ricchi che ne hanno a sufficienza. Per gli altri è differente.

Girò a sinistra automaticamente. Dopo aver fatto l’ennesima prova come plongeur il proprietario, un tipo grasso e quasi calvo, gli aveva detto: “Tony, mi dispiace, ma qui i clienti sono pochi. Tu sei una brava persona. Ma non posso tenerti. Ecco i soldi di questi giorni”.

Il fisico nonostante gli anni che andavano su era rimasto allenato dai tanti pomeriggi trascorsi in palestra a dare di guantoni. Quella avrebbe potuto essere una delle possibili svolte della sua vita. Ma non era andata: ci si era messa l’università da finire, mai finita. Ed eccolo a Bruxelles a cercare un lavoro da un ristorante ad un altro, mentre condivideva una stanza in un edificio a due piani dove c’erano altre venti camere, venti persone e quattro bagni; due per piano.
Se la situazione fosse continuata in questo modo, si era detto, avrebbe mollato tutto e, ripresa la caparra dei due mesi, sarebbe ritornato di nuovo in Italia sperando di trovare qualcosa. Vedremo, si disse, prendendo Rue Gineste. Il tempo di cominciare a percorrerla ed un ragazzo gli si avvicinò chiedendogli se avesse un accendino.

Frugò tra le tasche e un secondo più tardi sentì la lama di un coltello puntata alla gola.

“Tira fuori tutto quello che hai lì dentro” gli ordinò il tizio con la felpa con il cappuccio tirato su, indicando le tasche del giubbotto.
“Non ho niente!”
“Dai, fai vedere. Non mi fare incazzare. Su!” lo minacciò con la lunga lama del coltello.
Tony svuotò tutte le tasche ritrovando anche il piccolo accendino rosso con cui si era acceso la canna poco prima aggiungendo “mi hanno appena licenziato. Non ho un lavoro. Non ho soldi: gli ultimi ci ho comprato questo” fece mostrando il cannone intanto spento.
“Non ci credo… comunque dammi il cellulare! Dov’è?” lo incalzò e poi “dove cazzo è il cellulare?” gli urlo contro strattonandolo.
“Me l’hanno rubato la settimana scorsa”.
Il tipo con la felpa allora gli mise le mani tra le palle per assicurarsi che non ci fosse nascosto nulla lì in mezzo e poi si abbassò controllando attorno ai polpacci e scese giù giù fino alle scarpe per essere sicuro che Tony non mentisse.
Questo era il momento buono, pensò Tony, per dargli una ginocchiata sulla faccia. Una volta, mica secoli fa, l’avrebbe fatto e la faccia di questo coglione si sarebbe coperta di sangue immediatamente e i denti schizzati via e sparpagliati sul marciapiede.

Ma questo era una volta. Ora non più.