venerdì 20 dicembre 2019

1. La vita pulita di Giulia




Non mancava niente. Per Giulia D’Acunto si stava profilando all’orizzonte una carriera perfetta all’interno delle Istituzioni. I suoi genitori le avevano preparato tutto meticolosamente. E lei aveva seguito le istruzioni sbagliando mai una tappa. Quello che occorreva fare fu compiuto in modo impeccabile.

Come un automa.

Il classico? Tutto d’un fiato. La Bocconi? Come un sorso di metà mattinata. Al Collegio d’Europa stava ancora ricevendo i complimenti dall’intero corpo accademico, quando era già stata selezionata per il tirocinio alla DG “Salute e sicurezza alimentare”, dopo essere stata inserita nella “Blue-book”.

Sembrava fatta.

Ma poi qualcosa si era rotto. Sarà stato l’ambiente di quelli della “SANTE” o quel collega olandese con tutte le sue manie che aveva provocato un primo smottamento impercettibile ai più. E da allora le era diventato irragionevole anche salire su un treno senza avere qualche paranoia.
Alla morte della nonna giunta alla veneranda età di cento anni aveva chiesto ai genitori se fosse stato possibile chiamare una impresa per disinfettare l’intero appartamento. La loro perplessità per la richiesta piuttosto inconsueta della figlia, tuttavia, non si accompagnò con una decisione contraria. Anzi. L’avevano assecondata. Come ormai assecondavano altre stranezze forse spinti dal senso di colpa per averle costantemente indicato ogni via escludendo, perentoriamente, alcuna deviazione dal percorso indicato.
Anche Luca, il suo compagno, registrava con crescente preoccupazione quella sua mania di igiene che si esprimeva compulsivamente nel lavarsi le mani anche cento volte al giorno. Un giorno mentre erano in metro per attraversare quasi tutta la città le domandò “ci sediamo? Dobbiamo arrivare al capolinea.” Giulia lo osservò impassibile e gli ribatté “meglio di no. Sai che i sedili della metro sono pieni di qualsiasi forma di batteri.”
“Ma hai la giacca!” replicò lui.
“Lo so. Ma non è sufficiente. Ed ho paura di portare il mondo a casa. Dai… fammi questo favore. In fondo non è che te ne chieda tanti. Ti prego”, concluse prendendolo sottobraccio e avvicinandolo a sé.
Una notte dopo essere rientrati da una lunga cena con amici si fermarono ancora un po’ in sala. Presero del vino dolce e abbassarono le luci. Iniziarono a baciarsi.
“Un momento” gli disse “vado a lavarmi le mani. Lo sai che la metro pullula delle porcherie più improbabili.”
“Ok. Dai…”, le rispose. Ritornò dopo qualche minuto e si rimise sdraiata sul divano accanto a Luca. Lui si accinse allora a levarle la camicetta accarezzandole dolcemente le grandi tette.
“Scusa amore, ti dispiace andarti a lavare le mani?”
“Sì, ora vado” rispose lui un po’ spazientito.
Ritornò al volo e continuarono da dove avevano cessato. Si spogliarono lentamente mentre il ritmo del loro respiro si faceva più rapido. I loro corpi erano ora nudi e pronti, quando lei si interruppe nuovamente e gli ordinò di andare a prendere l’amuchina così da igienizzarsi il cazzo prima della penetrazione.
Luca si alzò per recarsi in bagno ed eseguire l’ordine impartito. Ma poi si fermò e tornò indietro. Prese gli abiti che erano stato gettati sul tappeto e cominciò a rivestirsi indossando dapprima le mutande. Prese poi i pantaloni e la maglietta ed infine le scarpe al tempo stesso che Giulia lo osservava dispiaciuta e in silenzio. Una volta completata l’operazione era quasi deciso a darle un bacio ma preferì lasciar perdere. Si voltò e sparì per sempre dalla vita pulita di Giulia.

venerdì 13 dicembre 2019

2. Quando vorresti che la tua partner ti raggiungesse a Bruxelles





“Eccomi qui…” arrivai con qualche minuto di ritardo al nostro appuntamento.
“Un attimo solo… sono al telefono con Adele” mi disse tappando il microfono del telefono.
“Va bene. Intanto entro dentro a prendere un tavolo. Ok?”
Fece sì con la testa reggendo il telefono sulla spalla intanto che con le mani si rollava una sigaretta. L’appuntamento con Edoardo era all’Athénée di un sabato pomeriggio piovoso con un cielo grigio e basso che metteva malumore. Già qualche giorno prima mi aveva anticipato che erano state settimane di litigate continue con lei, indecisa se raggiungerlo o meno a Bruxelles.
L’Athénée era un piccolo caffè di quartiere accanto la chiesa di Saint-Boniface e a due passi dalla “lunga vita” piena di ristorantini africani disseminati come chicchi di riso nel pittoresco quartiere di Matonge. Aveva un pubblico prevalentemente giovane e un po’ “bobo” che ti faceva sentire costantemente fuori posto. Il gestore, un tizio magro “métis”, con i dreads” raccolti dietro e la fronte già segnata da alcune calvizie, divorava un sandwich distrattamente sorseggiando un calice di vino rosso. Alzò lo sguardo dal quotidiano e attese che decidessi dove sedermi nel momento in cui Billie Holiday sussurrava triste “Lover man, oh, where can you be.”
Tre poltrone, con grandi rombi bianchi e neri ripetuti quasi all’infinito simili a pensieri ossessivi difficili da scacciare, accoglievano un pubblico giovane e con i piercing dal tardo pomeriggio in poi, al contrario di intellettuali svogliati e “chômeurssilenziosi che lo preferivano durante le pigre mattinate invernali. I tavolini quadrati, minuscoli come francobolli dove non si riesce nemmeno a ficcare la lingua sulla colla, erano dislocati sulle due ali del caffè.
Dopo aver dato un occhio in giro decisi di sedermi accanto alla piccola stufa circolare proprio al centro della sala in attesa che Edoardo concludesse la sua telefonata con Adele. Il tepore gradevole emesso della stufa calda e un bicchiere di vino rosso mi misero subito di buon umore. Un ragazzo allora entrò e chiese se il locale si chiamasse Athénée a causa dell’origine greca del proprietario. Il barista all’inizio fece difficoltà a comprendere la domanda, ma poi, voltandosi verso il gestore, gli domandò se così fosse, e quello, rialzando nuovamente lo sguardo dal quotidiano, fece semplicemente no con il capo.

“No… sai… avevo fatto questa domanda perché sono greco” ribatté allora il ragazzo ordinando subito dopo un gin tonic.

Le pareti del caffè con i mattoncini a vista, le piastrelle da piscina e i murales che echeggiavano le “azulejos” portoghesi sembravano aver bisogno di più stufe di quella che campeggiava lì in mezzo, da sola; mentre dal bancone, che divideva lo spazio come l’acqua mutilata dopo il passaggio di una imbarcazione, boccali di birra penzolavano simili a salsicce secche pronte a precipitare.
Mi alzai e acchiappai una copia de “le Monde” cercando la pagina culturale mi fermai a leggere una intervista allo stilista belga Dries Van Noten divertito a raccontare i limiti dell’industria della moda contemporanea. Una rotonda donna sulla quarantina intanto si sedette non troppo distante da me e dopo qualche secondo di esitazione si levò la sciarpa, prese il cellulare e si sistemò i capelli dietro le orecchie mentre il suo compagno allo stesso tempo aveva preso due Leffe.
Continuai a sfogliare il giornale e un trafiletto scritto da Anne-françoise Hivert, corrispondente da Stoccolma del giornale, descriveva la protesta per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Peter Handke.
“Che palle!” pensai e poi mi chiesi “Ma… Edoardo?”
Intanto il caffè si andava riempiendo e proprio sulla mia destra una coppia sulla trentina sorseggiava un tè allo zenzero discutendo se il meteo sarebbe stato grigio anche nei prossimi giorni. Poco più distante un cristiano alto due metri, con il cappello alla “Peacky blinders”, si stava aprendo una 100PAP. Chissà se anche lui avrà avuto una lametta nascosta lì in mezzo.

Mi alzai e riposi il quotidiano e presi le “Soir” indeciso se prendere un altro vino o aspettare che arrivasse Edoardo per ordinarlo.


venerdì 6 dicembre 2019

3. Lucille e Lazare





“Eppure io l’amo questa città! Il suo essere anarchico, indisciplinato, la sua millenaria resistenza all’ordine, il suo essere ribelle. E poi i suoi vicoli che salgono stretti togliendoti il fiato, deturpati da anni di malaffare non tanto dai piccoli criminali che spacciano fumo sulle strade ma dalle grandi famiglie come Sodé, con i loro traffici e le loro fondazioni caritatevoli di facciata.”
Scesero le scale ripide del loro appartamento e si infilarono su rue Léon Gozlan per prendere la metro due. L’appartamento, un monolocale di trenta metri quadrati, era una vecchia soffitta che il proprietario aveva arrangiato alla bell’e meglio cosi da poterlo affittare. E loro l’avevano immediatamente preso, giacché a quel prezzo, sarebbe stato davvero difficile trovare un’alternativa.

Dentro era organizzato in modo quasi scientifico.

Una volta varcata la soglia, infatti, sulla sinistra si trovava il condizionatore d’aria, piccolo ma efficiente, necessario per il caldo che squagliava la città durante i mesi estivi e soprattutto per stemperare la loro soffitta che a luglio diventava rovente come un ferro da stiro lasciato lì acceso da settimane.
L’unica finestra dava su un tetto lastricato con le tradizionali tegole della città, note ai quattro venti, e due piccoli mattoni grigi che loro usavano per fermare le tapparelle, che la leggera inclinazione dell’appartamento, spingeva inevitabilmente a chiudersi sempre. In fondo, a destra, sempre sul tetto, un vaso di alluminio che nessuno sapeva come fosse atterrato lì, gli ricordava la data di quando trasportarono i loro primi bagagli, giacché era comparso solo due giorni dopo il loro arrivo: era il dieci dicembre 2014. Da allora, ed erano quasi passati cinque anni, quel vaso aveva sempre accompagnato il loro sguardo ogni volta si sporgevano a fumare una sigaretta: li rassicurava.
Per quanto minuscola fosse quella soffitta loro l’avevano attrezzata nei minimi dettagli. La lavatrice con carica dall’alto, il frigorifero pigiato sotto il lavello, il tostapane e la macchina per il caffè, il boiler da cinquanta litri per l’acqua calda: tutto aveva il suo posto, salvo loro che facevano fatica a muoversi lì dentro, e raramente capitava che non si urtassero uno contro l’altra quando lei cucinava o lui apriva una bottiglia di vino.
“Anche io l’amo questa città… o meglio… non so… L’altro giorno mentre lavoravo un turista mi domandava se questo vento che soffia di continuo non faccia impazzire le persone” disse invece lei attraversando i tornelli alla stazione della metro “davvero… non lo so… qualche volta vorrei solo scappare da qui.”

“Scappare, dove?” replicò brusco lui.

Mentre lui faceva l’istruttore di arrampicata in una scuola della “deuxième chance” nei quartieri a nord, quelli devastati dalla povertà dove l’idea della “Cité Radieuse” si era spenta dopo una rapida fiammata, lei faceva la guida turistica organizzando i free tour”, quelli in cui, concluso il giro per la parte storica della città, i turisti danno un’offerta. Era un lavoro dignitoso, pensava Lucille, e che le dava la possibilità di mostrare una Marsiglia che sfuggisse, almeno per qualche istante, al cumulo di luoghi comuni.
“Sì… forse il vento che soffia qui qualche volta fa impazzire. Ti tiene sveglio e in guardia. Attento. E non tiene lontani i pensieri che non servono”, le confermò Lazare “il mistral caccia i pensieri inutili. Quelli di cui abbiamo bisogno per far girare a folle le nostre esistenze.”