venerdì 26 luglio 2019

22. Sei minuti in macchina o venti minuti a piedi





“’Notte amore. Ci vediamo domani. A che ora sei libera?”
“Quando vuoi. Domani non ho lezioni in facoltà. Oggi i miei andavano dagli zii al mare. Vuoi fermarti?”, chiese lei svenevole.
“No, amore, sono distrutto. E domani mattina ho pure lezione presto. Facciamo dopo pranzo” rispose lui trattenendo uno sbadiglio.
“Va bene, ‘ notte, amore”, fece lei aprendo lo sportello della Citroen.
“Ti amo, Mia” le disse e le diede un bacio. Girò le chiavi nel cruscotto e accese il motore mentre lei scendeva dall’auto.

Tirò fuori il cellulare intanto che aspettava che lei si chiudesse il portone dietro, e cominciò a scrivere “Fede, sei a casa?”

Mattia e Andrea erano amici da una vita. E anche Fede e Mia. Avevano trascorso una serata di chiacchiere in un locale del centro insieme. Mattia aveva sempre provato una certa trepidazione di fronte a Fede che tuttavia non s’era mai trasformata in un turbamento vero e proprio dalle conseguenze prevedibili e, alla fine, Mia e la sua insistenza l’avevano sopraffatto; e finirono assieme. Qualche settimana più avanti anche ad Andrea e Fede toccò la stessa sorte. Da allora saranno passati un paio di anni.
“Sì, appena arrivata”.
“Che fai ora?” fece lui mellifluo cancellando subito il messaggio dopo l’invio.
“Niente. Mi preparo per andare a dormire” e poi terminò con un secondo messaggio domandando “E tu? Già a casa?”
“Non ancora. Ho lasciato sotto casa Mia da pochissimo” e poi innestò la retromarcia e imboccò il vialetto per uscire dal parcheggio. Attese un attimo che cambiasse colore alla spunta e si avviò lentamente verso la strada principale.
“Siamo stati bene questa sera in pizzeria, no?” rispose lei mentre Mattia decideva di accostare la macchina vedendola intenta a scrivere.
“Sì, molto bene.” Rispose di getto e aggiunse “quei due volevano andarsene a casa subito. Io sarei rimasto in giro, almeno per un po’”.
“E c’era anche quella storia buffa del prof di chimica organica che Andrea s’era ostinato a raccontare ad ogni costo” digitò infine lei. Pochi secondi dopo scrisse “be’, sì anche io sarei rimasta ancora un po’ fuori”.

Cristo, pensò Mattia.

“Arrivato a casa nel frattempo?” provò ad informarsi lei.
“No, ho accostato sulla strada”.
“E che aspetti?” sollecitò inserendo a corredo una emoticon al testo.
“Chi, io?”
“Sì, che aspetti?”
“Cosa aspetto?”
“Certo! Cosa aspetti?”
“Non lo so. Non ho sonno. Vorrei stare ancora un po’ in giro. E tu? Che fai? Non vai a dormire?” provò a sondare.
“Vorrei…”
“Vorresti?” digitò immediatamente aggiungendo “dicevi?”
“No, niente. Dicevo che vorrei… dai lasciamo andare…”.
“No, dimmi!” incalzò Mattia.
“A proposito: sai che i miei sono partiti? Credo andassero a vedere la mostra di Marc e Macke; hanno una fissa per l’espressionismo tedesco quelli lì!”.
“Ritorneranno fra un paio di giorni, presumo. Sei ancora lì?” domandò.
“Sì, te l’ho detto. Non riesco a muovermi. Eppure dovrei…” inviò la faccetta addormentata.
“Fammi un po’ vedere dove stai esattamente… Mi mandi la posizione?” chiese lei.
“Eccola”.

Map dice che ti trovi a sei minuti in macchina o a venti minuti a piedi da qui!”

“Esatto!” commentò lui allegro.
“Vicino, no?”.
“Sì!, vicinissimo” confermò lui frettolosamente.
Poi mentre stava per scrivere nuovamente gli cadde il cellulare dalle mani e gli finì in mezzo alle gambe e si accorse che là qualcosa era cambiato.

venerdì 19 luglio 2019

23. Perché poi uno ci pensa ogni tanto a ritornare in Italia






Come mi capita spesso sono rientrato da poco in Italia. I girasoli sono ormai alti e lussureggianti e l’atmosfera vacanziera nella mia città si respira dal sorriso felice dei suoi abitanti e dagli occhi spiritati degli stagionali nei chioschetti sulla spiaggia. I festival del dialetto locale che allietano le serate nelle piazze pigre e i borghi splendidi e abbarbicati dove trovare riparo dalla calura estiva ne sono un’ulteriore conferma. Un mondo di bellezza tutto attorno da lasciarti a bocca aperta. Una cartolina che i turisti olandesi o belgi visitano con stupore fermandosi sul ciglio della strada a fare le foto delle colline con i filari delle viti ben ordinati.
Eppure! Sì, c’è un eppure.

C’è l’Italia dei piccoli soprusi.

Perché mentre quelli grandi ti fanno incazzare così intensamente da rovinarti lo stomaco e farti dire “adesso, basta!” e spingerti, ancorché riluttante, ad una presa di posizione che definire rivoluzionaria forse è un pochettino esagerata; con quelli piccoli no, non ci riesci.
Di fronte ad una sopraffazione palese, sfrontata e dalle dimensioni cosmiche che urla vendetta, anche la più conformista delle persone sente una vocina che le sussurra “così, no!”.
Una ingiustizia di quelle proporzioni è una bella donna o un uomo le cui qualità estetiche sono così evidenti che il giudizio degli astanti non può che essere unanime: sì, è una meraviglia!
Insomma, è facile ribellarsi quando vengono calpestati i grandi princìpi; o almeno dovrebbe esserlo. Se ne vedono gli oltraggi e la violenza che produce nell’anima ti implora di porvi un rimedio.

Subito.

Ma è davanti alle piccole angherie che siamo impreparati e indifesi perché sono delle gocce di acqua che colando giù, ogni istante, eterne, scavano delle crepe che nel tempo e senza badarci troppo diventano grandi come la basilica di San Pietro in Vaticano. Talune volte i piccoli soprusi hanno anche delle motivazioni che paiono ragionevoli. Di essi infatti si può dire, di quando in quando, “be’ comunque ha senso questa cosa. In fondo in fondo a pensarci bene, perché no? C’è una logica dietro tale decisione!”
I piccoli soprusi, poiché appunto minuscoli e talvolta dotati di una spiegazione, ti sfiancano lentamente. È una tensione continua che avviene però sottotraccia, dal momento che i “soprusini” non trattano con la coscienza.

Sono stillicidi che avvengono più in basso.

Vuoi disfarti del tuo apparecchio televisivo visto che trovi ripugnante un palinsesto costituito da programmi da voltastomaco e così smettere anche di pagarne il canone oggi addebitato direttamente sulla bolletta della luce? Lo devi comunicare all’Agenzia delle Entrate entro un termine stabilito. È giusto! E se per qualche ragione hai avuto i ladri in casa e te l’hanno rubato, pazienza; continuerai a pagarlo fino alla data concordata. La regola in sé e per sé funziona, figuriamoci!, altrimenti sarebbe il caos.
Un appartamento dato in locazione con un contratto regolarmente registrato e con un inquilino moroso ti obbliga, comunque, a te proprietario al pagamento della relativa imposta anche se l’inquilino ha cessato di pagarti l’affitto da oltre un anno, e hai voglia a dargli lo sfratto!
Al prossimo inquilino, non appena sarà entrato in casa, avrai poi fatto firmare la disdetta del contratto di locazione in bianco, facendo a tua volta un piccolo sopruso.

E in questo modo alla fine il cerchio sarà chiuso.

E l’esercizio del sopruso farà talmente parte di te che farai fatica a riconoscerlo, come quando parlando una lingua straniera, non sarai in grado di distinguere l’accento con il quale la parli.
È un paese da cartolina. A condizione di rimanere sul ciglio della strada a fotografare i filari delle viti prima del tramonto. 
O di tornarci di tanto in tanto.

venerdì 12 luglio 2019

24. Quando avresti dovuto portare via il tavolo e invece non l'hai fatto





A lungo mi sono procurato la roba spacciandola. Ma non sono mai stato un eroinomane, troppo codardo.
Solo piccoli traffici di erba o di fumo. Magari ne compravo una chilata e me ne staccavo cento grammi, e il resto lo dividevo con amici in modo da avere l’etto gratis. Sì, una cresta. Un misero plusvalore, tanto per capirci.
Magheggi trascurabili per fumare a sbafo. Che poi alla fine non era proprio a scrocco, considerato il rischio di tenersi per qualche giorno tutta quella roba lì in casa, prima di distribuirla.
Ma non volevo parlare di me ma di uno dei miei spacciatori.
Il “guercio” era per me uno spacciatore occasionale tipo il supermercato del centro commerciale dove recarsi se la bottega all’angolo era chiusa per ferie, o sprovvista. Ogni tossico infatti ha il suo giro di spacciatori ma quando la droga finisce, il giro abituale si allarga concentricamente fino ad arrivare così ai pochi “guercio”, dai quali presto o tardi si finisce per bussare.

Gli mancava un occhio e amava Šostakóvič.

Una sera in un bar uno sgabello lanciato da un tizio, ed indirizzato ad un suo amico più lesto nello schivarlo, era atterrato sul suo viso centrandogli l’occhio sinistro con una precisione da strike a bowling. E da allora era stato soprannominato “il guercio”. Tempo dopo ne aveva messo su uno di vetro che ti guardava sempre diritto con una espressione incredula, confondendoti non poco.
Lo chiamai per vederci usando una formula che mi appariva assai in codice: “posso passare da te per portarti la cioccolata?”, “sì, certo! Sai che mi piace la cioccolata belga!”
Mi accolse il solito bordello: pantaloni gettati sul pavimento, cartoni di pizza ammucchiati, lattine di birra in ogni angolo e piatti accatastati sul lavello con mosconi grandi come droni che ci danzavano sopra. E appunto Šostakóvič.
“La vuoi una birra?”, mi domandò.
“No, grazie”, tagliai corto.
Arrivare, contrattare, valutare la qualità della merce e andarsene via di corsa: una regola aurea. Senza tuttavia dare l’impressione della visita esclusivamente finalizzata all’acquisto. Perché anche lo spacciatore più ottuso non ama essere trattato solamente per quello che è. Ma vuole riconoscimento sociale. E compagnia. Talune volte degli spacciatori mi confessavano tristemente che quando erano sprovvisti di roba, o erano stati dentro e perciò più controllati dagli sbirri, oppure marcivano agli arresti domiciliari nessuno li chiamasse più, nemmeno per un ciao.

È la solitudine dello spacciatore.

Si va dal cellulare che scotta con una sfilza di numeri nella lista delle chiamate perse o ricevute al silenzio tombale. Il passaggio da the king of the party” a uomo invisibile è corto come l’ultima striscia di coca a disposizione e fulmineo come gli anni che ci separano dall’adolescenza quando li ricordiamo decrepiti, parcheggiati in una casa di riposo.
“La vuoi una birra?”, mi domandò ancora.
Gli risposi “no, tranquillo” come se me l’avesse chiesto per la prima volta.
Subito dopo aprendo lo scompartimento del congelatore, su in alto, guardandomi con l’occhio incredulo mi chiese “vuoi della cocaina?”.
“Lascia stare Cri, c’ho pure fretta. Il fumo?”
“Scusa, hai ragione. Te lo vado a prendere subito.”
Andò nella stanza accanto. Sentii che armeggiava con qualcosa e poi tornò con un bel ciocco di fumo, lo appoggiò sul tavolo e lo arrotolò ben benino nel cellophane.
“Grazie” ed esclamai “bello ‘sto tavolo! Non me lo ricordavo” giusto per dire qualcosa, mentre lui contava i pezzi da cinquanta che gli avevo appena dato.
“Legno di abete. È della mia ex. Alla fine l’ha lasciato qui quando se n’è andata. Vedrai che non sapeva come portarlo via” mi svelò con sarcasmo.
“Di sicuro”, replicai io, più per dargli ragione che per condividere l’amarezza delle sue parole.
“Ho dell’eroina se vuoi. Ce ne facciamo una sigaretta?”
“Cri, mi devo muovere”, cercai di accelerare. “Sarà per un’altra volta” aggiunsi mentendo, e me la squagliai.
Passarono diversi mesi e il negozietto era costantemente fornito e quindi non ebbi necessità di portargli ancora della cioccolata belga. Una mattina al bar, mentre mi gustavo un Campari, acchiappai il quotidiano locale, e nella cronaca nera un trafiletto riportava che l’avevano trovato appeso ad una corda, con i piedi ciondolanti sul tavolo rotondo di abete, che l’ex non aveva mai voluto portarsi via.

venerdì 5 luglio 2019

25. Le prime rose d'estate





La signora Lisa Gherardini era una funzionaria della DG EAC e viveva a Bruxelles da una decina d’anni. Il marito, o meglio il secondo marito, giacché dal primo si separò presto non appena rimase incinta della prima figlia, lavorava alla NATO.
Non era felice e non faceva nulla per nasconderlo.
Cercava solo di rendere la sua condizione e di quanti le stavano accanto più o meno sopportabile.

Senza finzioni.

Il carattere brusco e l’affetto scostante verso le figlie le avevano procurato dei pettegolezzi tra i corridoi degli uffici durante la settimana e sgradevoli ciance nei parchi nel corso del week-end.
Molte erano le cause dietro le sue nevrosi e di alcune ne era venuta a capo grazie al lavoro fatto con Véronique, la sua analista junghiana.
Ogni martedì pomeriggio alle sei Lisa Gherardini infatti si recava in avenue de Fré, dove trascorreva un’ora con la dottoressa Véronique De Smet per la seduta settimanale. La cosa si protraeva da qualche anno e lei si sentiva ormai pronta per recidere i fili che la legavano a questa consuetudine.
La mattina ancora addormentata mentre sorseggiava un caffè bollente fumandosi una sigaretta aveva anche pensato come congedarsi con Véronique dopo tutto questo tempo. E rifletteva sul fatto se ne fosse stata davvero capace.
La soluzione più semplice sarebbe stata chiamarla al telefono e dirglielo lì, così, al volo.

Senza pensarci troppo.

Cercò il numero sull’elenco e dopo averlo trovato lo digitò sul suo cellulare.
Ma riattaccò. E rimandò all’incontro di più tardi.
“Ne sarò all’altezza?”, si ridisse accendendo il motore dell’auto prima di uscire dal parcheggio e recarsi in ufficio.
La giornata in ufficio intanto si spegneva triste tra una scartoffia ed un’altra. La mansione per cui era stata assunta non le aveva mai richiesto grandi sforzi cognitivi.

E Lisa aveva trovato scomodamente riparo tra i suoi fantasmi.

Anni di terapia, si domandava, sono serviti a qualcosa?
Perché proseguire, chiese al marito la sera precedente a cena dopo che lui aveva messo a dormire le figlie.
“Mi sembra ti faccia bene” le rispose telegraficamente. “Ne abbiamo parlato tante volte Lisa e capisco la tua stanchezza. Che talvolta il tutto ti sembri inutile e frustrante, posso comprenderlo”.
“Ma dovresti andare avanti”, concluse addolcendo il tono della voce. Annuì e involontariamente aggrottò le sopracciglia. E per la prima volta si rendeva conto che probabilmente avrebbe fatto di testa propria.
Uscì dall’ufficio e prese meccanicamente la via in direzione dello studio di Véronique. Suonò il citofono e poi una volta dentro l’atrio chiamò l’ascensore. Un’ora dopo era lì confusa sul pianerottolo davanti alla porta socchiusa dello studio.

“Allora hai veramente deciso?”, la sollecitò di nuovo Véronique.

“Sì, forse è il momento. Non sono sicura sia la scelta giusta. Ma sento che bisogna farlo oggi” rispose esitante.
Un abbraccio caldo e liberatorio unì le due donne. Salutò e se ne andò senza voltarsi.
Scese le scale due alla volta con i pensieri rivolti ancora a quella porta che chiudeva titubante.
Non occorre essere Sibylle per avere un padre del cazzo, pensò. Attraversò la strada ed entrò in un negozio dove ordinò un mazzo di fiori.

Erano le prime rose d’estate.