La
signora Lisa Gherardini era una funzionaria della DG EAC e viveva a Bruxelles
da una decina d’anni. Il marito, o meglio il
secondo marito, giacché dal primo si separò presto non appena rimase incinta
della prima figlia, lavorava alla NATO.
Non
era felice e non faceva nulla per nasconderlo.
Cercava
solo di rendere la sua condizione e di quanti le stavano accanto più
o meno sopportabile.
Senza
finzioni.
Il
carattere brusco e l’affetto scostante verso le figlie
le avevano procurato dei pettegolezzi tra i corridoi degli uffici durante la
settimana e sgradevoli ciance nei parchi nel corso del week-end.
Molte
erano le cause dietro le sue nevrosi e di alcune ne era venuta a capo grazie al
lavoro fatto con Véronique, la sua analista junghiana.
Ogni
martedì pomeriggio alle sei Lisa Gherardini
infatti si recava in avenue de Fré, dove trascorreva un’ora con la dottoressa Véronique
De Smet per la seduta settimanale. La cosa si protraeva da qualche anno e lei
si sentiva ormai pronta per recidere i fili che la legavano a questa consuetudine.
La
mattina ancora addormentata mentre sorseggiava un caffè
bollente fumandosi una sigaretta aveva anche pensato come congedarsi con Véronique
dopo tutto questo tempo. E rifletteva sul fatto se ne fosse stata davvero capace.
La
soluzione più semplice sarebbe stata chiamarla
al telefono e dirglielo lì, così, al volo.
Senza pensarci troppo.
Cercò
il numero sull’elenco e dopo averlo trovato lo digitò sul suo cellulare.
Ma
riattaccò. E rimandò all’incontro di più tardi.
“Ne sarò all’altezza?”, si ridisse
accendendo il motore dell’auto prima di uscire dal parcheggio e recarsi in
ufficio.
La
giornata in ufficio intanto si spegneva triste tra una scartoffia ed un’altra.
La mansione per cui era stata assunta non le aveva mai richiesto grandi sforzi
cognitivi.
E Lisa aveva trovato scomodamente riparo
tra i suoi fantasmi.
Anni
di terapia, si domandava, sono serviti a qualcosa?
Perché
proseguire, chiese al marito la sera precedente a cena dopo che lui aveva messo
a dormire le figlie.
“Mi sembra ti faccia bene” le rispose
telegraficamente. “Ne abbiamo parlato tante volte Lisa e capisco la tua
stanchezza. Che talvolta il tutto ti sembri inutile e frustrante, posso
comprenderlo”.
“Ma dovresti andare avanti”,
concluse addolcendo il tono della voce. Annuì e involontariamente aggrottò le sopracciglia.
E per la prima volta si rendeva conto che probabilmente avrebbe fatto di testa propria.
Uscì
dall’ufficio e prese meccanicamente la via in direzione dello studio di Véronique.
Suonò
il citofono e poi una volta dentro l’atrio chiamò l’ascensore. Un’ora dopo era
lì confusa sul pianerottolo davanti alla porta socchiusa dello studio.
“Allora hai veramente deciso?”, la sollecitò
di nuovo Véronique.
“Sì, forse è il momento. Non sono
sicura sia la scelta giusta. Ma sento che bisogna farlo oggi” rispose esitante.
Un
abbraccio caldo e liberatorio unì le due
donne. Salutò e se ne andò senza voltarsi.
Scese
le scale due alla volta con i pensieri rivolti ancora a quella porta che
chiudeva titubante.
Non occorre essere Sibylle per avere
un padre del cazzo, pensò. Attraversò la strada ed entrò in un negozio dove ordinò
un mazzo di fiori.
Erano le
prime rose d’estate.
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