“Il problema non è se uno si
identifica di più con Lucky o Estragone: il problema è che non mi piace
mentire. Punto. Riesci a capirmi?”, domandai irritato.
“Quando fai così sei il solito
insopportabile”, ribatté lei.
“Insopportabile? Davvero?” feci io
stupito. “Non t’eri spinta mai a tanto. O sbaglio?”
“Non saprei” fece lei girando la
forchetta per prendere ancora degli altri spaghetti dal fondo del piatto mentre
io aspettavo impaziente una sua risposta.
“Senti”, cominciò, “questa cosa che
non ti piace mentire la trovo scandalosamente desueta; non ne capisco le
motivazioni. Ho sempre avuto l’impressione che essa fosse più…, come dire, l’esito
della tua educazione da chierichetto. È come se l’ottavo comandamento ti fosse
stato vergato a caratteri cubitali. Non trovi?”
Annuii.
Mi versai ancora del vino bianco.
«Educazione da chierichetto»
continuai a pensare. Spesso avevo l’impressione che la cosa fosse decisamente più
prosaica; altro che religione e cattolicesimo.
Scosse
la testa compiendo lo stesso movimento ondulatorio che faceva quando stava per esaurire
la pazienza con i suoi studenti: glielo avevo osservato migliaia di volte ed
ero tentato di dirle di non trattarmi allo stesso modo; mi arrestai in tempo,
per carità: e chi voleva sentirla?
“Il
punto”, attaccai convinto questa volta, “non è né religioso né morale.
Per quanto mi riguarda la menzogna
ha il sapore di un frutto rapidamente andato a male e la vista di mille
drosofile attorno a spolparsene la parte marcia: non mento non a causa del
precetto dell’ottavo comandamento. Non è quel dispositivo normativo che me lo
impedisce. In un certo senso è anche più semplice.”
“E allora? Perché non mentire? Perché
non confondere le acque?”, replicò infastidita.
“È
più una questione di identità”, risposi cercando di articolare un pensiero con
un minimo di senso.
“Caffè, dolci?”, domandò la
cameriera che s’era avvicinata ed era rimasta lì qualche secondo, in attesa che
noi ci interrompessimo.
“No, no, grazie” rispose lei mentre
l’accompagnavo con lo sguardo confermandone le intenzioni.
E
poi ci ripensai e dissi: “ah scusi… può portarci ancora del
vino? Bianco? Grazie.”
La
cameriera si girò frettolosamente, sistemandosi gli
occhiali e dirigendosi subito verso il bancone.
“Mentire mi confonde. Non capisco
chi parla, rischio di non sapere chi è, per usare un termine tanto caro agli
anglofoni, «accountable»
di quanto si
vada dicendo. Chi è poi l’io che dovrà
ricordare la menzogna? Il problema, in un certo senso, non è la menzogna in sé
e per sé né, figuriamoci, le sue conseguenze morali. È il continuo esercizio
della memoria della menzogna più che la menzogna stessa ciò che mi secca di una
menzogna.”
“Scusa,
mi sono persa. Non so dove vuoi arrivare e questa conversazione è di una noia
mortale” fece alzando gli occhi e sbuffando.
“Sì, forse hai ragione. È venerdì
sera e poi siamo pure a cena fuori. A proposito: come sta poi Sofia? È un po’
che non la vedo. L’ultima volta non mi sembrava stesse bene.”
“Meglio. Non si capisce poi cosa le fosse
accaduto quella sera a cena dal greco. Ora sta frequentando un ragazzo
incontrato un paio di settimane fa ad un concerto. È tutta presa: speriamo sia
la volta buona.”
“Speriamo.”