venerdì 26 aprile 2019

35. Una conversazione da evitare il venerdì sera




“Il problema non è se uno si identifica di più con Lucky o Estragone: il problema è che non mi piace mentire. Punto. Riesci a capirmi?”, domandai irritato.
“Quando fai così sei il solito insopportabile”, ribatté lei.
“Insopportabile? Davvero?” feci io stupito. “Non t’eri spinta mai a tanto. O sbaglio?”
“Non saprei” fece lei girando la forchetta per prendere ancora degli altri spaghetti dal fondo del piatto mentre io aspettavo impaziente una sua risposta.
“Senti”, cominciò, “questa cosa che non ti piace mentire la trovo scandalosamente desueta; non ne capisco le motivazioni. Ho sempre avuto l’impressione che essa fosse più…, come dire, l’esito della tua educazione da chierichetto. È come se l’ottavo comandamento ti fosse stato vergato a caratteri cubitali. Non trovi?”
Annuii. Mi versai ancora del vino bianco.
«Educazione da chierichetto» continuai a pensare. Spesso avevo l’impressione che la cosa fosse decisamente più prosaica; altro che religione e cattolicesimo.
Scosse la testa compiendo lo stesso movimento ondulatorio che faceva quando stava per esaurire la pazienza con i suoi studenti: glielo avevo osservato migliaia di volte ed ero tentato di dirle di non trattarmi allo stesso modo; mi arrestai in tempo, per carità: e chi voleva sentirla?

“Il punto”, attaccai convinto questa volta, “non è né religioso né morale.

Per quanto mi riguarda la menzogna ha il sapore di un frutto rapidamente andato a male e la vista di mille drosofile attorno a spolparsene la parte marcia: non mento non a causa del precetto dell’ottavo comandamento. Non è quel dispositivo normativo che me lo impedisce. In un certo senso è anche più semplice.”
“E allora? Perché non mentire? Perché non confondere le acque?”, replicò infastidita.

“È più una questione di identità”, risposi cercando di articolare un pensiero con un minimo di senso.

“Caffè, dolci?”, domandò la cameriera che s’era avvicinata ed era rimasta lì qualche secondo, in attesa che noi ci interrompessimo.
“No, no, grazie” rispose lei mentre l’accompagnavo con lo sguardo confermandone le intenzioni.
E poi ci ripensai e dissi: “ah scusi… può portarci ancora del vino? Bianco? Grazie.”
La cameriera si girò frettolosamente, sistemandosi gli occhiali e dirigendosi subito verso il bancone.
“Mentire mi confonde. Non capisco chi parla, rischio di non sapere chi è, per usare un termine tanto caro agli anglofoni, «accountable» di quanto si vada dicendo. Chi è poi l’io che dovrà ricordare la menzogna? Il problema, in un certo senso, non è la menzogna in sé e per sé né, figuriamoci, le sue conseguenze morali. È il continuo esercizio della memoria della menzogna più che la menzogna stessa ciò che mi secca di una menzogna.”

“Scusa, mi sono persa. Non so dove vuoi arrivare e questa conversazione è di una noia mortale” fece alzando gli occhi e sbuffando.

“Sì, forse hai ragione. È venerdì sera e poi siamo pure a cena fuori. A proposito: come sta poi Sofia? È un po’ che non la vedo. L’ultima volta non mi sembrava stesse bene.”
“Meglio. Non si capisce poi cosa le fosse accaduto quella sera a cena dal greco. Ora sta frequentando un ragazzo incontrato un paio di settimane fa ad un concerto. È tutta presa: speriamo sia la volta buona.”

“Speriamo.”


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