A
lungo mi sono procurato la roba spacciandola. Ma non sono mai stato un
eroinomane, troppo codardo.
Solo
piccoli traffici di erba o di fumo. Magari ne compravo una chilata e me ne
staccavo cento grammi, e il resto lo dividevo con amici in modo da avere l’etto
gratis. Sì, una cresta. Un misero plusvalore, tanto per capirci.
Magheggi
trascurabili per fumare a sbafo. Che poi alla fine non era proprio a scrocco,
considerato il rischio di tenersi per qualche giorno tutta quella roba lì
in casa, prima di distribuirla.
Ma
non volevo parlare di me ma di uno dei miei spacciatori.
Il
“guercio” era per me uno spacciatore occasionale tipo il supermercato del
centro commerciale dove recarsi se la bottega all’angolo
era chiusa per ferie, o sprovvista. Ogni tossico infatti ha il suo giro di
spacciatori ma quando la droga finisce, il giro abituale si allarga
concentricamente fino ad arrivare così ai pochi “guercio”, dai quali presto o
tardi si finisce per bussare.
Gli mancava un occhio e
amava Šostakóvič.
Una
sera in un bar uno sgabello lanciato da un tizio, ed indirizzato ad un suo
amico più lesto nello schivarlo, era
atterrato sul suo viso centrandogli l’occhio sinistro con una precisione da strike
a bowling. E da allora era stato soprannominato “il guercio”. Tempo
dopo ne aveva messo su uno di vetro che ti guardava sempre diritto con una
espressione incredula, confondendoti non poco.
Lo
chiamai per vederci usando una formula che mi appariva assai in codice: “posso
passare da te per portarti la cioccolata?”, “sì, certo! Sai che mi piace la
cioccolata belga!”
Mi
accolse il solito bordello: pantaloni gettati sul pavimento, cartoni di pizza
ammucchiati, lattine di birra in ogni angolo e piatti accatastati sul lavello
con mosconi grandi come droni che ci danzavano sopra. E appunto Šostakóvič.
“La vuoi una birra?”, mi domandò.
“No, grazie”, tagliai corto.
Arrivare,
contrattare, valutare la qualità della merce e andarsene via di
corsa: una regola aurea. Senza tuttavia dare l’impressione della visita esclusivamente
finalizzata all’acquisto. Perché anche lo spacciatore più ottuso non ama essere
trattato solamente per quello che è. Ma vuole riconoscimento sociale. E
compagnia. Talune volte degli spacciatori mi confessavano tristemente che quando
erano sprovvisti di roba, o erano stati dentro e perciò più controllati dagli
sbirri, oppure marcivano agli arresti domiciliari nessuno li chiamasse più, nemmeno
per un ciao.
È
la solitudine dello spacciatore.
Si
va dal cellulare che scotta con una sfilza di numeri nella lista delle chiamate
perse o ricevute al silenzio tombale. Il passaggio da “the king of the party” a uomo
invisibile è corto come l’ultima striscia di coca a disposizione e fulmineo come
gli anni che ci separano dall’adolescenza quando li ricordiamo decrepiti, parcheggiati
in una casa di riposo.
“La vuoi una birra?”, mi domandò ancora.
Gli risposi “no, tranquillo” come se
me l’avesse chiesto per la prima volta.
Subito
dopo aprendo lo scompartimento del congelatore, su in alto, guardandomi con l’occhio
incredulo mi chiese “vuoi della cocaina?”.
“Lascia stare Cri, c’ho pure fretta.
Il fumo?”
“Scusa, hai ragione. Te lo vado a
prendere subito.”
Andò
nella stanza accanto. Sentii che armeggiava con qualcosa e poi tornò con un bel
ciocco di fumo, lo appoggiò sul tavolo e lo arrotolò ben benino nel cellophane.
“Grazie” ed esclamai “bello ‘sto
tavolo! Non me lo ricordavo” giusto per dire qualcosa, mentre lui contava i pezzi
da cinquanta che gli avevo appena dato.
“Legno di abete. È della mia ex.
Alla fine l’ha lasciato qui quando se n’è andata. Vedrai che non sapeva come
portarlo via” mi svelò con sarcasmo.
“Di sicuro”, replicai io, più per dargli
ragione che per condividere l’amarezza delle sue parole.
“Ho dell’eroina se vuoi. Ce ne
facciamo una sigaretta?”
“Cri, mi devo muovere”, cercai di
accelerare. “Sarà per un’altra volta” aggiunsi mentendo, e me la squagliai.
Passarono
diversi mesi e il negozietto era costantemente fornito e quindi non ebbi necessità
di portargli ancora della cioccolata belga.
Una mattina al bar, mentre mi gustavo un Campari, acchiappai il quotidiano
locale, e nella cronaca nera un trafiletto riportava che l’avevano trovato
appeso ad una corda, con i piedi ciondolanti sul tavolo rotondo di abete, che l’ex
non aveva mai voluto portarsi via.
Nessun commento:
Posta un commento