venerdì 12 luglio 2019

24. Quando avresti dovuto portare via il tavolo e invece non l'hai fatto





A lungo mi sono procurato la roba spacciandola. Ma non sono mai stato un eroinomane, troppo codardo.
Solo piccoli traffici di erba o di fumo. Magari ne compravo una chilata e me ne staccavo cento grammi, e il resto lo dividevo con amici in modo da avere l’etto gratis. Sì, una cresta. Un misero plusvalore, tanto per capirci.
Magheggi trascurabili per fumare a sbafo. Che poi alla fine non era proprio a scrocco, considerato il rischio di tenersi per qualche giorno tutta quella roba lì in casa, prima di distribuirla.
Ma non volevo parlare di me ma di uno dei miei spacciatori.
Il “guercio” era per me uno spacciatore occasionale tipo il supermercato del centro commerciale dove recarsi se la bottega all’angolo era chiusa per ferie, o sprovvista. Ogni tossico infatti ha il suo giro di spacciatori ma quando la droga finisce, il giro abituale si allarga concentricamente fino ad arrivare così ai pochi “guercio”, dai quali presto o tardi si finisce per bussare.

Gli mancava un occhio e amava Šostakóvič.

Una sera in un bar uno sgabello lanciato da un tizio, ed indirizzato ad un suo amico più lesto nello schivarlo, era atterrato sul suo viso centrandogli l’occhio sinistro con una precisione da strike a bowling. E da allora era stato soprannominato “il guercio”. Tempo dopo ne aveva messo su uno di vetro che ti guardava sempre diritto con una espressione incredula, confondendoti non poco.
Lo chiamai per vederci usando una formula che mi appariva assai in codice: “posso passare da te per portarti la cioccolata?”, “sì, certo! Sai che mi piace la cioccolata belga!”
Mi accolse il solito bordello: pantaloni gettati sul pavimento, cartoni di pizza ammucchiati, lattine di birra in ogni angolo e piatti accatastati sul lavello con mosconi grandi come droni che ci danzavano sopra. E appunto Šostakóvič.
“La vuoi una birra?”, mi domandò.
“No, grazie”, tagliai corto.
Arrivare, contrattare, valutare la qualità della merce e andarsene via di corsa: una regola aurea. Senza tuttavia dare l’impressione della visita esclusivamente finalizzata all’acquisto. Perché anche lo spacciatore più ottuso non ama essere trattato solamente per quello che è. Ma vuole riconoscimento sociale. E compagnia. Talune volte degli spacciatori mi confessavano tristemente che quando erano sprovvisti di roba, o erano stati dentro e perciò più controllati dagli sbirri, oppure marcivano agli arresti domiciliari nessuno li chiamasse più, nemmeno per un ciao.

È la solitudine dello spacciatore.

Si va dal cellulare che scotta con una sfilza di numeri nella lista delle chiamate perse o ricevute al silenzio tombale. Il passaggio da the king of the party” a uomo invisibile è corto come l’ultima striscia di coca a disposizione e fulmineo come gli anni che ci separano dall’adolescenza quando li ricordiamo decrepiti, parcheggiati in una casa di riposo.
“La vuoi una birra?”, mi domandò ancora.
Gli risposi “no, tranquillo” come se me l’avesse chiesto per la prima volta.
Subito dopo aprendo lo scompartimento del congelatore, su in alto, guardandomi con l’occhio incredulo mi chiese “vuoi della cocaina?”.
“Lascia stare Cri, c’ho pure fretta. Il fumo?”
“Scusa, hai ragione. Te lo vado a prendere subito.”
Andò nella stanza accanto. Sentii che armeggiava con qualcosa e poi tornò con un bel ciocco di fumo, lo appoggiò sul tavolo e lo arrotolò ben benino nel cellophane.
“Grazie” ed esclamai “bello ‘sto tavolo! Non me lo ricordavo” giusto per dire qualcosa, mentre lui contava i pezzi da cinquanta che gli avevo appena dato.
“Legno di abete. È della mia ex. Alla fine l’ha lasciato qui quando se n’è andata. Vedrai che non sapeva come portarlo via” mi svelò con sarcasmo.
“Di sicuro”, replicai io, più per dargli ragione che per condividere l’amarezza delle sue parole.
“Ho dell’eroina se vuoi. Ce ne facciamo una sigaretta?”
“Cri, mi devo muovere”, cercai di accelerare. “Sarà per un’altra volta” aggiunsi mentendo, e me la squagliai.
Passarono diversi mesi e il negozietto era costantemente fornito e quindi non ebbi necessità di portargli ancora della cioccolata belga. Una mattina al bar, mentre mi gustavo un Campari, acchiappai il quotidiano locale, e nella cronaca nera un trafiletto riportava che l’avevano trovato appeso ad una corda, con i piedi ciondolanti sul tavolo rotondo di abete, che l’ex non aveva mai voluto portarsi via.

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