venerdì 6 dicembre 2019

3. Lucille e Lazare





“Eppure io l’amo questa città! Il suo essere anarchico, indisciplinato, la sua millenaria resistenza all’ordine, il suo essere ribelle. E poi i suoi vicoli che salgono stretti togliendoti il fiato, deturpati da anni di malaffare non tanto dai piccoli criminali che spacciano fumo sulle strade ma dalle grandi famiglie come Sodé, con i loro traffici e le loro fondazioni caritatevoli di facciata.”
Scesero le scale ripide del loro appartamento e si infilarono su rue Léon Gozlan per prendere la metro due. L’appartamento, un monolocale di trenta metri quadrati, era una vecchia soffitta che il proprietario aveva arrangiato alla bell’e meglio cosi da poterlo affittare. E loro l’avevano immediatamente preso, giacché a quel prezzo, sarebbe stato davvero difficile trovare un’alternativa.

Dentro era organizzato in modo quasi scientifico.

Una volta varcata la soglia, infatti, sulla sinistra si trovava il condizionatore d’aria, piccolo ma efficiente, necessario per il caldo che squagliava la città durante i mesi estivi e soprattutto per stemperare la loro soffitta che a luglio diventava rovente come un ferro da stiro lasciato lì acceso da settimane.
L’unica finestra dava su un tetto lastricato con le tradizionali tegole della città, note ai quattro venti, e due piccoli mattoni grigi che loro usavano per fermare le tapparelle, che la leggera inclinazione dell’appartamento, spingeva inevitabilmente a chiudersi sempre. In fondo, a destra, sempre sul tetto, un vaso di alluminio che nessuno sapeva come fosse atterrato lì, gli ricordava la data di quando trasportarono i loro primi bagagli, giacché era comparso solo due giorni dopo il loro arrivo: era il dieci dicembre 2014. Da allora, ed erano quasi passati cinque anni, quel vaso aveva sempre accompagnato il loro sguardo ogni volta si sporgevano a fumare una sigaretta: li rassicurava.
Per quanto minuscola fosse quella soffitta loro l’avevano attrezzata nei minimi dettagli. La lavatrice con carica dall’alto, il frigorifero pigiato sotto il lavello, il tostapane e la macchina per il caffè, il boiler da cinquanta litri per l’acqua calda: tutto aveva il suo posto, salvo loro che facevano fatica a muoversi lì dentro, e raramente capitava che non si urtassero uno contro l’altra quando lei cucinava o lui apriva una bottiglia di vino.
“Anche io l’amo questa città… o meglio… non so… L’altro giorno mentre lavoravo un turista mi domandava se questo vento che soffia di continuo non faccia impazzire le persone” disse invece lei attraversando i tornelli alla stazione della metro “davvero… non lo so… qualche volta vorrei solo scappare da qui.”

“Scappare, dove?” replicò brusco lui.

Mentre lui faceva l’istruttore di arrampicata in una scuola della “deuxième chance” nei quartieri a nord, quelli devastati dalla povertà dove l’idea della “Cité Radieuse” si era spenta dopo una rapida fiammata, lei faceva la guida turistica organizzando i free tour”, quelli in cui, concluso il giro per la parte storica della città, i turisti danno un’offerta. Era un lavoro dignitoso, pensava Lucille, e che le dava la possibilità di mostrare una Marsiglia che sfuggisse, almeno per qualche istante, al cumulo di luoghi comuni.
“Sì… forse il vento che soffia qui qualche volta fa impazzire. Ti tiene sveglio e in guardia. Attento. E non tiene lontani i pensieri che non servono”, le confermò Lazare “il mistral caccia i pensieri inutili. Quelli di cui abbiamo bisogno per far girare a folle le nostre esistenze.”

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