In
fondo se lo continuava a chiedere insistentemente se non avesse fatto l’ennesima
“Thierrata”. E sì che ne aveva fatte tante in passato. Ma questa volta non
avrebbe avuto modo di rimediare. No, un figlio è per sempre.
Cugino
di un alto funzionario del Partito Socialista, che ne aveva scalato
pazientemente l’intera gerarchia, passando dall’irrilevante
incarico di membro della locale sezione di Mons fino ad arrivare ad occupare l’ufficio
più prestigioso con grandi finestre che si affacciavano sulla Chapelle a
Bruxelles; lui, Thierry, era sempre rimasto in sospeso: l’università lasciata lì
ad un esame e la tesi già concordata con il professore amico del cugino, un lavoro
impiegatizio in una banca mollato dopo un paio di anni, cosa che aveva fatto
irritare non poco il cugino proprio in considerazione dell’amicizia che legava
quest’ultimo al direttore generale dell’istituto. E anche con Hélène, l’ultima
compagna conosciuta una sera a casa di amici, era finita senza mai che avesse
deciso che fosse veramente finita; così e alla fine più per inerzia che per
consapevole scelta non si erano più cercati e la relazione era morta senza che
nessuno avesse celebrato un funerale accompagnato dalla conseguente elaborazione
del lutto.
“Thierry”, le ricordava spesso la
madre “ma quand’è che ti sistemi? Hai visto che tuo cugino si è sposato ed ora
aspetta anche un figlio?”
Thierry
era così scivolato progressivamente dentro
i suoi quaranta anni senza farci troppo caso: aveva solo girato un foglio del calendario
appeso alla parete e realizzato che tre settimane prima era stato il suo compleanno.
La barba curata, gli occhiali con la grossa montatura nera, un foulard indossato
con classe e la matita a coprirgli gli occhi incavati dall’assenza di sonno. I
capelli folti e neri venivano spesso fermati con un po’ di gel e mostravano già
alcune calvizie ai lati. Vestiva con una certa ricercatezza. Spesso in giacca.
Di tanto in tanto durante una
sbronza solitaria a casa, su al quinto piano, usciva sulla terrazza a fumarsi
una sigaretta e guardando lì in basso si chiedeva se non fosse stata la
soluzione più facile. Dieci secondi, o anche meno da quando aveva messo su un
po’ di peso, e non avrebbe dovuto più rendere conto di niente a nessuno. Tanto meno
al cugino.
Ma
poi una sera solo tre mesi fa ad una cena organizzata proprio dal cugino per presentarle
qualcuno aveva incontrato Annalisa. Ed era stato il punto di svolta che
aspettava da sempre. Giovane e già membro
del gabinetto di un “échevin” ai lavori pubblici, spietata, con un
matrimonio fallito alle spalle e un figlio di cinque anni che divideva con l’ex
marito. Si erano immediatamente trovati. La determinazione di Annalisa
combaciava perfettamente, come due pezzi di un puzzle su cui sta per planare un
gatto indisciplinato che manderà presto tutto all’aria, con la sua indeterminatezza.
Erano perfetti. “Con lei”, pensava (no,
forse pensare non è il verbo giusto; sentire o forse sperare sarebbe meglio) “posso
riempire quei buchi esistenziali grandi come Giove.” E già un mese fa la più
bella delle notizie: Annalisa le aveva comunicato che aspettava un bambino da
lui.
“Dormi a casa mia questa sera?”
chiese lei.
“Stasera, non ce la faccio. Ho casa
sottosopra: non ci passo da qualche giorno. E devo dare una sistemata” rispose
lui baciandola un bacio “ti chiamo più tardi” concluse poi.
Tornò a casa, gettò sul tavolo di fronte alla grande finestra la
posta accumulata che gli aveva lasciato la portinaia. Si sbarazzò stancamente
del cappotto appoggiandolo sul divano accanto all’enorme schermo al plasma e si
aprì una bottiglia di vino. Prese le sigarette, uscì sul terrazzo e inspirò a
pieni polmoni, mentre da sotto gli arrivano le voci un gruppo di ragazzini che
tiravano calci ad un pallone nel parchetto con le altalene.
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