“Emanuele, dove dobbiamo prendere la
metro?” mi chiese Pietro continuando a sbattere sul bicchiere il tuorlo d’uovo
che aveva zuccherato abbondantemente.
“Secondo me conviene camminare fino
a porte de Namur e poi da lì prendiamo la due per andare verso il meeting. Comunque
vediamo cosa dice Google Maps così siamo sicuri di non commettere errori.”
“Ok. Dimmi pure quando ci dobbiamo
muovere così finisco la colazione ed usciamo”, mi rispose dopo aver dato l’ultima
cucchiaiata al suo zabaione.
Il
vecchio edificio coloniale si trovava all’incirca a
metà della strada ripida che scendeva verso il fiume dove le donne con la
bacinella sulla testa portavano a lavare i panni tre volte alla settimana. Con
la fine della stagione delle piogge anche esso, al cui interno al primo piano
avevamo vissuto sin dalla mia nascita, sembrava aver voglia solo di scrollarsi
di dosso tutta quell’acqua caduta negli ultimi tre mesi. E sì che le piogge
venivano augurate, desiderate e talvolta invocate in quanto la loro assenza era
chiaramente un segno di sventura che si addensava per i mesi a venire. L’appartamento
era minuscolo per poter contenere tutti quei cugini che l’avevano scelto come
dimora abituale durante la settimana e aveva le assi del pavimento
scricchiolanti e le mura da ritinteggiare ma, trovandosi a poca distanza dal
centro e dalla scuola, conferiva un certo status alla mia famiglia che sovente
lo faceva discretamente trasparire. Dall’altro lato della strada, in un
complesso di case più moderne e recintato dalla lamiera ondulata viveva mia
nonna, una signora alta, austera e con una grande fascia sul capo perennemente
indossata a coprirle i capelli bianchi.
“Manu? Sei pronto? Guarda che fai
tardi a scuola stamattina. Ti ho già preparato la merenda e la devi solo mettere
nel cestino. Dai!”
“Sì, mamma. Sono quasi pronto.
Finisco lo zabaione che mi hai preparato, mi metto il grembiule e sono pronto.”
Lo
zabaione soffice in cui di tanto in tanto lei ci metteva del latte, quasi fosse
un premio perché il giorno prima non mi fossi attardato con i pantaloni da indossare, con le scarpe da allacciare o con il
giubbino ancora da allacciare, segnava per me non solo la fine della stagione
delle piogge ma anche l’anno scolastico che ripartiva con le mattinate da
passare dentro un’aula invece che scorrazzare a piedi scalzi sulla strada
davanti casa dove poi, alle sei della sera quando il sole era tramontato da
qualche minuto, la donna tuttofare sarebbe venuta a recuperami, chiamandomi per
nome, in mezzo ad un nugolo urlante di altri bambini.
“Quante volte ti ho detto di non
sporcarti tutto? Guarda come sei conciato, tutto nero! Se ti vede tua madre!
Dai su muoviamoci!” si lamentava stringendomi per mano mentre si aggiustava il
telo dietro le spalle che copriva suo figlio addormentato.
“Ancora un minuto, dai! Solo un
minuto” frignavo mentre lei mi trascinava dentro casa dove intanto aveva
preparato la tinozza per farmi il bagno caldo.
“Su, su, dai andiamo che tra poco
arriva la mamma e se ti trova in questo modo sono guai. Per te e per me. Dai,
su che dobbiamo fare il bagno, cenare e metterci a nanna che domani c’è la
scuola.”
“Ancora un momentino, su!” cercavo
di ribellarmi mentre ero ormai sulle scale dell’ingresso e quasi prossimo ad
attraversare l’uscio.
“Lo vuoi lo zabaione domani mattina?”
mi chiese lei addolcendo lo sguardo “guarda che se non entriamo dentro subito, dico
alla mamma di non preparatelo.”
”Emanuele, ma a che ora è
esattamente il meeting?” mi chiese nuovamente Pietro per poi aggiungere “ma cos’è
che stavi pensando?”
“Allo zabaione, Pietro. Era buono
quello che hai fatto?”
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