Non
vado spesso per ristoranti italiani a Bruxelles.
Per
tante ragioni.
Boh,
tanto per cominciare se desidero il cibo italiano me le faccio a casa. E poi
tornando in Italia con una certa regolarità posso
approfittare della gastronomia del “bel paese” mentre sono giù.
E
ancora, come mi ha raccontato una volta un cuoco che lavorava in un ristorante
italiano qui in Belgio, quanto la cucina italiana, analogamente a tutte
le altre, venga sovente reinterpretata tenendo conto dei gusti del posto e
quindi per esempio, lui, sulla carbonara l’uovo lo metteva alla fine, crudo.
E
tanti saluti alla ricetta della nonna.
In
realtà non vado tanto per ristoranti punto e basta. E quando accade è perché magari ho la curiosità di scoprire un ambiente nuovo, dei cibi
mai assaggiati o semplicemente mi si propone una serata conviviale con alcuni
amici che non vedo da tempo. Altrimenti sto a casa. E buona lì!
D’altro
canto, se uno si ferma a rifletterci qualche secondo, la storia di andare a
mangiare fuori non è che sia cominciata da secoli, almeno per quanti non fossero
membri del cosiddetto jet-set. Tutti gli altri il
ristorante potevano scordarselo o tutt’al più lo
vedevano dalle cucine. Ma poi è arrivato il boom economico e oltre alla
macchina da acquistare a rate, sono arrivate assieme le ferie agostane e le
cene al ristorante.
Insomma,
la settimana scorsa ero solo e un amico cuoco, dopo aver lavorato anni in
diecimila posti tra trattorie, osterie, tavole calde e via elencando qui a
Bruxelles, mi aveva chiesto se potevo passare a trovarlo e vedere come s’era
piazzato.
Perché
no?
Ho
attraversato mezza città e sono approdato a
Woluwe-Saint-Pierre al Melicious. Il locale è piccolo (una ventina di coperti
nella sala principale e altrettanti in quella dietro che dà sul giardino) e
piuttosto spoglio. Alle pareti una riproduzione più da pub che da ristorante
italiano. E la cosa, lo confesso, mi ha fatto un gran piacere: finalmente non c’è
la solita locandina di “vacanze romane” sui muri!
La
cameriera, Maria, elenca, leggendo su un taccuino volante (scusandosi per la
precarietà della cosa ma hanno appena aperto
e il menù sarà pronto a breve) i piatti della sera e chiede cosa io desideri.
Lei, comunque, mi suggerisce delle lasagne che, ripete, sono il piatto forte
dello chef.
Accetto.
E chiedo pure un bicchiere di vino rosso.
Non
sono un gran gourmet e non pubblico
su Instagram o Facebook foto di cibi e vini come fanno in molti: in breve non
appartengo alla food porn community.
Le lasagne mi sembrano buone con la parte superiore leggermente croccante; con
un sugo di pesce che non avevo mai mangiato. Il mio amico cuoco mi prende da un
lato e, inorridito, mi confessa all’orecchio come in altri ristoranti italiani sia
capitato che diano delle lasagne del Delhaize, quelle da due
euro e mezzo e poi una volta scaldate ci si metta sopra un po’ di pomodoro, e
via come se fossero state fatte a mano.
No,
lui no.
Ci
mette tutta l’anima ai fornelli e fa un gesto di
orrore ripensando alla confezione del Delhaize prima di recarsi nuovamente in
cucina.
Rifaccio
un altro sorso di vino. E mi riguardo attorno e rivedo che alle pareti non ci
sono Sofia Loren, Totò e Alberto Sordi intenti a gustarsi
degli spaghetti. E manca anche Franco Califano che suona amaro “tutto il resto è
noia”.
Mi
rallegra vedere un angolo di Italia contemporanea dove una cameriera ventenne originaria
di Cosenza, salutati gli ultimi clienti, ascolta Fred de Palma insieme ad Ana Mena,
Ghali e Sfera Ebbasta, mentre apparecchia daccapo per il servizio del giorno successivo.
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