venerdì 17 maggio 2019

32. La mazza da baseball del kebabbaro




“Ma tu non ci stai con la testa!” esclamò Faysal strabuzzando gli occhi ancora attonito. Non sai che a Matonge alla gente hanno aperto la testa in due per molto meno?” e ripeté “molto molto meno” aggiungendo un “molto” così da essere sicuro io avessi ben compreso.
Non lo sapevo. 
E a pensarci adesso capisco m’è andata veramente di gran lusso.
Paola una mia corregionale aveva invitato un gruppo di amici ad una cena “senza impegno”, così aveva detto, da un tipo che ha un ristorante in casa; esatto, in casa: nel senso che non ha licenza, non ha insegna, non ha camerieri, non ha menù e non ha, ovviamente, recensioni su TripAdvisor; non ha niente di quanto uno si attenderebbe da un normale ristorante. Salvo che è un ristorante dove si può mangiare tutto preparato e cotto all’interno di una cucina attrezzata esattamente come un ristorante: cuocipasta, brasiere, friggitrici, abbattitori di temperatura e mantenitori di temperatura, lavelli in acciaio inox da far paura.

Una cosa seria ma senza essere seria.

Arrivammo tardi come mi succede sempre e del gran bel di dio cucinato non rimanevano che alcune cozze e poco altro. Mentre chissà perché c’era ancora una valanga di vino. Sorseggiando da una parte e chiacchierando da un’altra il vino mi andò su, inevitabilmente. Dopo un paio di ore decidemmo di spostarci altrove: “dove andiamo? Che facciamo?” erano le domande ricorrenti.
Io avevo un solo bisogno fisiologico: mangiare. Un buco universale nello stomaco in cui avevo versato una gran quantità di vino non chiedeva altro che cibo; solo cibo. Gli altri, che qualcosa avevano già mangiato, fuggirono rapidamente mentre la mia compagna mi suggeriva di salire verso chaussée d’Ixelles alla ricerca di un posto aperto dove potersi nutrire.

Arrivammo a Matonge e dopo aver scansato degli spacciatori d’erba non troppo molesti appostati agli angoli di alcune vie ci ficcammo dentro un kebabbaro.

Ero sbronzo e il gestore vigile che ne aveva viste già molte in quel quartiere, e a quell’ora, mi pedinava con lo sguardo attento verificando non combinassi troppi guai.
Gli chiesi del bagno.
Mi indicò di salire alcune scale e di voltare poi a destra. Mi sentivo osservato, scrutato e sorvegliato.
Dopo essere andato al cesso, scesi le scale e mi accucciai su una sedia proprio di fronte al bancone. Il kebabbaro mi lanciava ancora occhiate di controllo che ricambiavo con sguardi del tipo “ma che cazzo vuoi? Non sto facendo niente!”.

Il tutto si protrasse per qualche secondo finché non sentii che la cosa stesse diventando un fatto da risolvere fra uomini e mi venne di fargli il dito medio.

Il kebabbaro schizzò dal retro del bancone in una frazione di secondo con in mano una mazza da baseball e ci venne incontro brandendola minacciosa. Mi prese per una spalla ma gli effetti dell’alcool erano ancora belli presenti che non ebbe bisogno di utilizzarla: bastò solo strattonarmi che caddi a terra come un salame.
La mia compagna mi si mise accanto a proteggermi piagnucolando e dicendogli che ce ne saremmo andati via immediatamente mentre gli altri avventori ci osservavano distrattamente; o almeno così io speravo.
Mi rialzai appoggiandomi dove potevo e ci muovemmo lentamente verso l’uscita sentendomi addosso lo sguardo vigile del kebabbaro con la mazza da baseball ancora in mano.

Aveva ragione Faysal: quella volta mi andò veramente di lusso.


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