“Ma tu non ci stai con la testa!”
esclamò Faysal strabuzzando gli occhi ancora attonito. Non sai che a Matonge
alla gente hanno aperto la testa in due per molto meno?” e ripeté “molto molto
meno” aggiungendo un “molto” così da essere sicuro io avessi ben compreso.
Non
lo sapevo.
E a pensarci adesso capisco m’è andata veramente di gran lusso.
E a pensarci adesso capisco m’è andata veramente di gran lusso.
Paola
una mia corregionale aveva invitato un gruppo di amici ad una cena “senza
impegno”, così aveva detto, da un tipo che ha un ristorante in casa; esatto, in
casa: nel senso che non ha licenza, non ha insegna, non ha camerieri, non ha
menù e non ha, ovviamente, recensioni su TripAdvisor; non ha niente di quanto
uno si attenderebbe da un normale ristorante. Salvo che è un ristorante dove si
può mangiare tutto preparato e cotto all’interno di una cucina attrezzata
esattamente come un ristorante: cuocipasta, brasiere, friggitrici, abbattitori
di temperatura e mantenitori di temperatura, lavelli in acciaio inox da far
paura.
Una
cosa seria ma senza essere seria.
Arrivammo
tardi come mi succede sempre e del gran bel di dio cucinato non rimanevano che
alcune cozze e poco altro. Mentre chissà perché c’era
ancora una valanga di vino. Sorseggiando da una parte e chiacchierando da un’altra
il vino mi andò su, inevitabilmente. Dopo un paio di ore decidemmo di spostarci
altrove: “dove andiamo? Che facciamo?” erano le domande ricorrenti.
Io
avevo un solo bisogno fisiologico: mangiare. Un buco universale nello stomaco in
cui avevo versato una gran quantità di vino
non chiedeva altro che cibo; solo cibo. Gli altri, che qualcosa avevano già
mangiato, fuggirono rapidamente mentre la mia compagna mi suggeriva di salire
verso chaussée d’Ixelles alla ricerca di un posto aperto dove potersi nutrire.
Arrivammo
a Matonge e dopo aver scansato degli spacciatori d’erba non troppo molesti
appostati agli angoli di alcune vie ci ficcammo dentro un kebabbaro.
Ero
sbronzo e il gestore vigile che ne aveva viste già
molte in quel quartiere, e a quell’ora, mi pedinava con lo sguardo attento
verificando non combinassi troppi guai.
Gli
chiesi del bagno.
Mi
indicò di salire alcune scale e di voltare poi a destra. Mi
sentivo osservato, scrutato e sorvegliato.
Dopo
essere andato al cesso, scesi le scale e mi accucciai su una sedia proprio di
fronte al bancone. Il kebabbaro mi lanciava ancora occhiate di controllo che
ricambiavo con sguardi del tipo “ma che
cazzo vuoi? Non sto facendo niente!”.
Il
tutto si protrasse per qualche secondo finché non sentii che la cosa stesse
diventando un fatto da risolvere fra uomini e mi venne di fargli il dito medio.
Il kebabbaro schizzò dal retro del
bancone in una frazione di secondo con in mano una mazza da baseball e ci venne
incontro brandendola minacciosa. Mi prese per una spalla ma gli effetti dell’alcool
erano ancora belli presenti che non ebbe bisogno di utilizzarla: bastò solo strattonarmi
che caddi a terra come un salame.
La
mia compagna mi si mise accanto a proteggermi piagnucolando e dicendogli che ce
ne saremmo andati via immediatamente mentre gli altri avventori ci
osservavano distrattamente; o almeno così io
speravo.
Mi
rialzai appoggiandomi dove potevo e ci muovemmo lentamente verso l’uscita
sentendomi addosso lo sguardo vigile del kebabbaro con la mazza da baseball
ancora in mano.
Aveva ragione Faysal: quella
volta mi andò
veramente di lusso.
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