venerdì 22 febbraio 2019

44. Are you happy?




Non è facile rispondere ad una domanda così semplice.
Eppure, nelle istituzioni europee i funzionari, quelli “cool” e inarrivabili, qualche volta te la fanno.
Forse pensano sia facile, in fondo.
O forse la devono fare. Hanno per caso nella loro "job description" di chiedere ai loro subalterni se sono “happy”?
Evidentemente sì.
Dopo la mia giornata di lavoro avevo deciso di andare a prendere un bicchiere in centro con Nicola. L'appuntamento era di fronte alla “Bourse”, ora zeppa dei soliti mercatini natalizi. Anche le città di mare disseminate di palme hanno ormai l’abitudine di organizzarli. E una mostra su Van Gogh.
Eravamo entrambi imbacuccati tanto faceva freddo. Io con il solito giaccone e Nicola con un giubbotto nero e un cappello di lana calzato stretto stretto.
Temporeggiammo qualche secondo in attesa di un’idea su un bar nelle immediate vicinanze. Il mare di persone che faceva la fila per acchiappare un “glüwein” montava intanto come una rivoltura e, insieme al freddo, ci avevano messo in “modalità risparmio energico”: eravamo come degli ebeti che ripetevano “ma… allora dove andiamo?”
Riparammo infine allo Zebra. Un bar poco distante, tepore e arachidi a portata di mano. Potevamo sederci e bere un bicchiere di rilasso.
Quella mattina Nicola, un agente contrattuale del Parlamento europeo (non chiedetemi cosa significhi "agente contrattuale") era stato convocato dalla sua capa, una donnona francese bionda e sbrigativa, di nome Inès Petite, per accertarsi se lui, assunto da poco e per poco, fosse, appunto, felice.

“Ma che cazzo significa la domanda «sei felice?»”, mi chiese Nicola, allargando le braccia, stupito che qualcuno potesse mai essere così ingenuo, da credere di ottenere una riposta minimamente credibile ad un quesito del genere.


“Boh… non saprei… davvero…” cominciai a ragionarci, sorseggiando un bicchiere di vino rosso.
“Essere felici…”, continuai a riflettere. Non era una questione cui rispondere così su due piedi.
“Quanto tempo hai avuto a disposizione?”, sapevo infatti, per esperienza indiretta, che c’era un minutaggio preciso per i quiz che ti vengono rivolti nelle istituzioni.
“Subito! Al volo… ma che tempo e tempo. E naturalmente non poteva essere una risposta così, a caso, tanto per dire. Ci dovevo pensare. Dare quella giusta. E poi… ma chi s’aspettava questa domanda? Manco fossimo dallo psicologo!”
Are you happy?” disse ancora una volta scuotendo la testa.
“Vero”, annuii.
“Risposta da dare al volo ad una domanda assai complicata, fatta a tradimento, o no?” provai a consolarlo.
“Ma certamente! Mica potevo dirle che non ero felice: stipendio di tutto rispetto, sai quanto pagano le istituzioni no?, per meno di otto ore al giorno di lavoro, questo io e lei lo sapevamo. Ma non potevo nemmeno risponderle che ero super felice a cliccare delle cose sullo schermo di un computer come un bimbo di due anni. E anche di questo eravamo entrambi consapevoli.”
“E quindi? Cosa le hai detto?” lo incalzai.
Fece un nuovo sorso di birra “be’… che ero «underused». Si dice così «sottoutilizzato?»
“Boh… non saprei… immagino di sì… e comunque… vuoi sapere come la penso?” chiesi, prendendo un pugno di arachidi dal piattino.
“E dimmi!” fece spazientito Nicola che ‘sta cosa del sapere se avesse dato o meno la risposta esatta lo stava cominciando a rendere infelice.
“Mah… ho l’impressione sia più la fase storica, niente di personale, suppongo, nessuna tragedia. Siamo tutti un po' sottoutilizzati. Salvo quei pochi che sono "overused".
Alzò il sopracciglio. Non ne era troppo convinto.
“Un’altra bevuta?”
“Sì, perché no?”

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