Tempo
ormai di tornare.
I
girasoli erano tutti neri e piegati in avanti come il capo di Cristo sulla
croce. I festival del dialetto che avevano
allietato le piazze si erano conclusi e gli organizzatori avevano già tirato le
somme e si erano dati appuntamento per ottobre per pianificare quello del
prossimo anno. Gli
stagionali che a giugno avevano gli occhi spiritati sorridevano e tiravano
finalmente un po’ di fiato mentre senza fretta i
primi chioschi sulla spiaggia cominciavano a sbaraccare e i gestori si davano
presto un gancio in qualche angolo di sud America o “nell’isola che nessuno conosce
ancora” in Thailandia. E nei borghi splendidi e abbarbicati dove ci si recava a
cercare un po’ di riparo dal caldo infernale ricomparivano i gatti randagi
solitari, padroni delle vie deserte alla fine. I turisti olandesi e belgi, spossati anche loro dal caldo, dopo aver
fotografato sul ciglio della strada i filari delle viti ben ordinati si
accalcavano adesso sui voli di rientro felici di riprendere la via di casa, con
il lusso di potersi esprimere nuovamente senza errori né imbarazzo.
Erano
passati due mesi ma sembrava ieri.
Era
stupefacente osservare quanto le giornate di settembre nelle città
di riviera assomiglino al tardo pomeriggio in spiaggia dopo una lunga giornata
distesi sul telo. Pian piano, infatti, la spiaggia si svuotava degli ultimi
bagnanti, le onde del mare lentamente si accorciavano, il frastuono e le grida
si riducevano fino a scomparire intanto che i gabbiani più intraprendenti
cercavano del cibo planando qua e là, garrendo impazziti.
Ecco
questo era settembre.
Il
cielo si faceva più terso e il suo colore tornava ad essere
di nuovo azzurro. La forma delle colline su in alto si percepiva chiaramente e
tutto quello che le circondava si dettagliava, contrariamente ai mesi di luglio
ed agosto quando l’umidità come una specie di rotolo di pellicola Cuki,
avvolgendoli, te le trasfigurava.
Ieri
sera mi ero fatto poi una passeggiata costeggiando il molo dei pescherecci
mentre da due grandi cartelli Run mi guardava stupito con gli occhi sgranati
chiedendosi perché. “Top Gun” e “Airone bianco”
ondeggiavano sfiorandosi di tanto in tanto facendo un balletto all’unisono. Il
riflesso della luna sull’acqua nera e gonfia di gasolio si confondeva con la
luce sparata dai fari montati sugli sconfinati parcheggi vuoti, ora che i
traghetti avevano ridotto il numero dei viaggi dall’altra parte del mare.
Peppino, trenta anni sopra un peschereccio, ingannava il tempo fumando una
sigaretta e, nel frattempo che il comandante e il nostromo arrivassero,
sistemava la trinca e la ghia, penzolanti dall’archetto.
Il
saluto agli amici in Italia si era sciolto in cene che terminavano costantemente
con un “fai un buon viaggio di rientro a
Bruxelles” e un “allora, ci vediamo la prossima volta che rientri”. Il verbo “rientrare”
non mutava, era il medesimo e veniva naturalmente usato con leggerezza perché
chi lo esprimeva lo faceva privo di attenzione. Cambiava solo la destinazione
del rientro. Ci scambiavano gli ultimi abbracci e i Nu Guinea da un’auto con i finestrini
abbassati cantavano:
“Pareva ajere
Era
bello a sta’ in miezz’a via
Senza
pensier…”
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