venerdì 20 dicembre 2019

1. La vita pulita di Giulia




Non mancava niente. Per Giulia D’Acunto si stava profilando all’orizzonte una carriera perfetta all’interno delle Istituzioni. I suoi genitori le avevano preparato tutto meticolosamente. E lei aveva seguito le istruzioni sbagliando mai una tappa. Quello che occorreva fare fu compiuto in modo impeccabile.

Come un automa.

Il classico? Tutto d’un fiato. La Bocconi? Come un sorso di metà mattinata. Al Collegio d’Europa stava ancora ricevendo i complimenti dall’intero corpo accademico, quando era già stata selezionata per il tirocinio alla DG “Salute e sicurezza alimentare”, dopo essere stata inserita nella “Blue-book”.

Sembrava fatta.

Ma poi qualcosa si era rotto. Sarà stato l’ambiente di quelli della “SANTE” o quel collega olandese con tutte le sue manie che aveva provocato un primo smottamento impercettibile ai più. E da allora le era diventato irragionevole anche salire su un treno senza avere qualche paranoia.
Alla morte della nonna giunta alla veneranda età di cento anni aveva chiesto ai genitori se fosse stato possibile chiamare una impresa per disinfettare l’intero appartamento. La loro perplessità per la richiesta piuttosto inconsueta della figlia, tuttavia, non si accompagnò con una decisione contraria. Anzi. L’avevano assecondata. Come ormai assecondavano altre stranezze forse spinti dal senso di colpa per averle costantemente indicato ogni via escludendo, perentoriamente, alcuna deviazione dal percorso indicato.
Anche Luca, il suo compagno, registrava con crescente preoccupazione quella sua mania di igiene che si esprimeva compulsivamente nel lavarsi le mani anche cento volte al giorno. Un giorno mentre erano in metro per attraversare quasi tutta la città le domandò “ci sediamo? Dobbiamo arrivare al capolinea.” Giulia lo osservò impassibile e gli ribatté “meglio di no. Sai che i sedili della metro sono pieni di qualsiasi forma di batteri.”
“Ma hai la giacca!” replicò lui.
“Lo so. Ma non è sufficiente. Ed ho paura di portare il mondo a casa. Dai… fammi questo favore. In fondo non è che te ne chieda tanti. Ti prego”, concluse prendendolo sottobraccio e avvicinandolo a sé.
Una notte dopo essere rientrati da una lunga cena con amici si fermarono ancora un po’ in sala. Presero del vino dolce e abbassarono le luci. Iniziarono a baciarsi.
“Un momento” gli disse “vado a lavarmi le mani. Lo sai che la metro pullula delle porcherie più improbabili.”
“Ok. Dai…”, le rispose. Ritornò dopo qualche minuto e si rimise sdraiata sul divano accanto a Luca. Lui si accinse allora a levarle la camicetta accarezzandole dolcemente le grandi tette.
“Scusa amore, ti dispiace andarti a lavare le mani?”
“Sì, ora vado” rispose lui un po’ spazientito.
Ritornò al volo e continuarono da dove avevano cessato. Si spogliarono lentamente mentre il ritmo del loro respiro si faceva più rapido. I loro corpi erano ora nudi e pronti, quando lei si interruppe nuovamente e gli ordinò di andare a prendere l’amuchina così da igienizzarsi il cazzo prima della penetrazione.
Luca si alzò per recarsi in bagno ed eseguire l’ordine impartito. Ma poi si fermò e tornò indietro. Prese gli abiti che erano stato gettati sul tappeto e cominciò a rivestirsi indossando dapprima le mutande. Prese poi i pantaloni e la maglietta ed infine le scarpe al tempo stesso che Giulia lo osservava dispiaciuta e in silenzio. Una volta completata l’operazione era quasi deciso a darle un bacio ma preferì lasciar perdere. Si voltò e sparì per sempre dalla vita pulita di Giulia.

venerdì 13 dicembre 2019

2. Quando vorresti che la tua partner ti raggiungesse a Bruxelles





“Eccomi qui…” arrivai con qualche minuto di ritardo al nostro appuntamento.
“Un attimo solo… sono al telefono con Adele” mi disse tappando il microfono del telefono.
“Va bene. Intanto entro dentro a prendere un tavolo. Ok?”
Fece sì con la testa reggendo il telefono sulla spalla intanto che con le mani si rollava una sigaretta. L’appuntamento con Edoardo era all’Athénée di un sabato pomeriggio piovoso con un cielo grigio e basso che metteva malumore. Già qualche giorno prima mi aveva anticipato che erano state settimane di litigate continue con lei, indecisa se raggiungerlo o meno a Bruxelles.
L’Athénée era un piccolo caffè di quartiere accanto la chiesa di Saint-Boniface e a due passi dalla “lunga vita” piena di ristorantini africani disseminati come chicchi di riso nel pittoresco quartiere di Matonge. Aveva un pubblico prevalentemente giovane e un po’ “bobo” che ti faceva sentire costantemente fuori posto. Il gestore, un tizio magro “métis”, con i dreads” raccolti dietro e la fronte già segnata da alcune calvizie, divorava un sandwich distrattamente sorseggiando un calice di vino rosso. Alzò lo sguardo dal quotidiano e attese che decidessi dove sedermi nel momento in cui Billie Holiday sussurrava triste “Lover man, oh, where can you be.”
Tre poltrone, con grandi rombi bianchi e neri ripetuti quasi all’infinito simili a pensieri ossessivi difficili da scacciare, accoglievano un pubblico giovane e con i piercing dal tardo pomeriggio in poi, al contrario di intellettuali svogliati e “chômeurssilenziosi che lo preferivano durante le pigre mattinate invernali. I tavolini quadrati, minuscoli come francobolli dove non si riesce nemmeno a ficcare la lingua sulla colla, erano dislocati sulle due ali del caffè.
Dopo aver dato un occhio in giro decisi di sedermi accanto alla piccola stufa circolare proprio al centro della sala in attesa che Edoardo concludesse la sua telefonata con Adele. Il tepore gradevole emesso della stufa calda e un bicchiere di vino rosso mi misero subito di buon umore. Un ragazzo allora entrò e chiese se il locale si chiamasse Athénée a causa dell’origine greca del proprietario. Il barista all’inizio fece difficoltà a comprendere la domanda, ma poi, voltandosi verso il gestore, gli domandò se così fosse, e quello, rialzando nuovamente lo sguardo dal quotidiano, fece semplicemente no con il capo.

“No… sai… avevo fatto questa domanda perché sono greco” ribatté allora il ragazzo ordinando subito dopo un gin tonic.

Le pareti del caffè con i mattoncini a vista, le piastrelle da piscina e i murales che echeggiavano le “azulejos” portoghesi sembravano aver bisogno di più stufe di quella che campeggiava lì in mezzo, da sola; mentre dal bancone, che divideva lo spazio come l’acqua mutilata dopo il passaggio di una imbarcazione, boccali di birra penzolavano simili a salsicce secche pronte a precipitare.
Mi alzai e acchiappai una copia de “le Monde” cercando la pagina culturale mi fermai a leggere una intervista allo stilista belga Dries Van Noten divertito a raccontare i limiti dell’industria della moda contemporanea. Una rotonda donna sulla quarantina intanto si sedette non troppo distante da me e dopo qualche secondo di esitazione si levò la sciarpa, prese il cellulare e si sistemò i capelli dietro le orecchie mentre il suo compagno allo stesso tempo aveva preso due Leffe.
Continuai a sfogliare il giornale e un trafiletto scritto da Anne-françoise Hivert, corrispondente da Stoccolma del giornale, descriveva la protesta per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Peter Handke.
“Che palle!” pensai e poi mi chiesi “Ma… Edoardo?”
Intanto il caffè si andava riempiendo e proprio sulla mia destra una coppia sulla trentina sorseggiava un tè allo zenzero discutendo se il meteo sarebbe stato grigio anche nei prossimi giorni. Poco più distante un cristiano alto due metri, con il cappello alla “Peacky blinders”, si stava aprendo una 100PAP. Chissà se anche lui avrà avuto una lametta nascosta lì in mezzo.

Mi alzai e riposi il quotidiano e presi le “Soir” indeciso se prendere un altro vino o aspettare che arrivasse Edoardo per ordinarlo.


venerdì 6 dicembre 2019

3. Lucille e Lazare





“Eppure io l’amo questa città! Il suo essere anarchico, indisciplinato, la sua millenaria resistenza all’ordine, il suo essere ribelle. E poi i suoi vicoli che salgono stretti togliendoti il fiato, deturpati da anni di malaffare non tanto dai piccoli criminali che spacciano fumo sulle strade ma dalle grandi famiglie come Sodé, con i loro traffici e le loro fondazioni caritatevoli di facciata.”
Scesero le scale ripide del loro appartamento e si infilarono su rue Léon Gozlan per prendere la metro due. L’appartamento, un monolocale di trenta metri quadrati, era una vecchia soffitta che il proprietario aveva arrangiato alla bell’e meglio cosi da poterlo affittare. E loro l’avevano immediatamente preso, giacché a quel prezzo, sarebbe stato davvero difficile trovare un’alternativa.

Dentro era organizzato in modo quasi scientifico.

Una volta varcata la soglia, infatti, sulla sinistra si trovava il condizionatore d’aria, piccolo ma efficiente, necessario per il caldo che squagliava la città durante i mesi estivi e soprattutto per stemperare la loro soffitta che a luglio diventava rovente come un ferro da stiro lasciato lì acceso da settimane.
L’unica finestra dava su un tetto lastricato con le tradizionali tegole della città, note ai quattro venti, e due piccoli mattoni grigi che loro usavano per fermare le tapparelle, che la leggera inclinazione dell’appartamento, spingeva inevitabilmente a chiudersi sempre. In fondo, a destra, sempre sul tetto, un vaso di alluminio che nessuno sapeva come fosse atterrato lì, gli ricordava la data di quando trasportarono i loro primi bagagli, giacché era comparso solo due giorni dopo il loro arrivo: era il dieci dicembre 2014. Da allora, ed erano quasi passati cinque anni, quel vaso aveva sempre accompagnato il loro sguardo ogni volta si sporgevano a fumare una sigaretta: li rassicurava.
Per quanto minuscola fosse quella soffitta loro l’avevano attrezzata nei minimi dettagli. La lavatrice con carica dall’alto, il frigorifero pigiato sotto il lavello, il tostapane e la macchina per il caffè, il boiler da cinquanta litri per l’acqua calda: tutto aveva il suo posto, salvo loro che facevano fatica a muoversi lì dentro, e raramente capitava che non si urtassero uno contro l’altra quando lei cucinava o lui apriva una bottiglia di vino.
“Anche io l’amo questa città… o meglio… non so… L’altro giorno mentre lavoravo un turista mi domandava se questo vento che soffia di continuo non faccia impazzire le persone” disse invece lei attraversando i tornelli alla stazione della metro “davvero… non lo so… qualche volta vorrei solo scappare da qui.”

“Scappare, dove?” replicò brusco lui.

Mentre lui faceva l’istruttore di arrampicata in una scuola della “deuxième chance” nei quartieri a nord, quelli devastati dalla povertà dove l’idea della “Cité Radieuse” si era spenta dopo una rapida fiammata, lei faceva la guida turistica organizzando i free tour”, quelli in cui, concluso il giro per la parte storica della città, i turisti danno un’offerta. Era un lavoro dignitoso, pensava Lucille, e che le dava la possibilità di mostrare una Marsiglia che sfuggisse, almeno per qualche istante, al cumulo di luoghi comuni.
“Sì… forse il vento che soffia qui qualche volta fa impazzire. Ti tiene sveglio e in guardia. Attento. E non tiene lontani i pensieri che non servono”, le confermò Lazare “il mistral caccia i pensieri inutili. Quelli di cui abbiamo bisogno per far girare a folle le nostre esistenze.”

venerdì 29 novembre 2019

4. Tuo cugino si è sposato e aspetta un figlio




In fondo se lo continuava a chiedere insistentemente se non avesse fatto l’ennesima “Thierrata”. E sì che ne aveva fatte tante in passato. Ma questa volta non avrebbe avuto modo di rimediare. No, un figlio è per sempre.
Cugino di un alto funzionario del Partito Socialista, che ne aveva scalato pazientemente l’intera gerarchia, passando dall’irrilevante incarico di membro della locale sezione di Mons fino ad arrivare ad occupare l’ufficio più prestigioso con grandi finestre che si affacciavano sulla Chapelle a Bruxelles; lui, Thierry, era sempre rimasto in sospeso: l’università lasciata lì ad un esame e la tesi già concordata con il professore amico del cugino, un lavoro impiegatizio in una banca mollato dopo un paio di anni, cosa che aveva fatto irritare non poco il cugino proprio in considerazione dell’amicizia che legava quest’ultimo al direttore generale dell’istituto. E anche con Hélène, l’ultima compagna conosciuta una sera a casa di amici, era finita senza mai che avesse deciso che fosse veramente finita; così e alla fine più per inerzia che per consapevole scelta non si erano più cercati e la relazione era morta senza che nessuno avesse celebrato un funerale accompagnato dalla conseguente elaborazione del lutto.

“Thierry”, le ricordava spesso la madre “ma quand’è che ti sistemi? Hai visto che tuo cugino si è sposato ed ora aspetta anche un figlio?”

Thierry era così scivolato progressivamente dentro i suoi quaranta anni senza farci troppo caso: aveva solo girato un foglio del calendario appeso alla parete e realizzato che tre settimane prima era stato il suo compleanno. La barba curata, gli occhiali con la grossa montatura nera, un foulard indossato con classe e la matita a coprirgli gli occhi incavati dall’assenza di sonno. I capelli folti e neri venivano spesso fermati con un po’ di gel e mostravano già alcune calvizie ai lati. Vestiva con una certa ricercatezza. Spesso in giacca.
Di tanto in tanto durante una sbronza solitaria a casa, su al quinto piano, usciva sulla terrazza a fumarsi una sigaretta e guardando lì in basso si chiedeva se non fosse stata la soluzione più facile. Dieci secondi, o anche meno da quando aveva messo su un po’ di peso, e non avrebbe dovuto più rendere conto di niente a nessuno. Tanto meno al cugino.
Ma poi una sera solo tre mesi fa ad una cena organizzata proprio dal cugino per presentarle qualcuno aveva incontrato Annalisa. Ed era stato il punto di svolta che aspettava da sempre. Giovane e già membro del gabinetto di un “échevin” ai lavori pubblici, spietata, con un matrimonio fallito alle spalle e un figlio di cinque anni che divideva con l’ex marito. Si erano immediatamente trovati. La determinazione di Annalisa combaciava perfettamente, come due pezzi di un puzzle su cui sta per planare un gatto indisciplinato che manderà presto tutto all’aria, con la sua indeterminatezza. Erano perfetti.  “Con lei”, pensava (no, forse pensare non è il verbo giusto; sentire o forse sperare sarebbe meglio) “posso riempire quei buchi esistenziali grandi come Giove.” E già un mese fa la più bella delle notizie: Annalisa le aveva comunicato che aspettava un bambino da lui.
“Dormi a casa mia questa sera?” chiese lei.

“Stasera, non ce la faccio. Ho casa sottosopra: non ci passo da qualche giorno. E devo dare una sistemata” rispose lui baciandola un bacio “ti chiamo più tardi” concluse poi.


Tornò a casa, gettò sul tavolo di fronte alla grande finestra la posta accumulata che gli aveva lasciato la portinaia. Si sbarazzò stancamente del cappotto appoggiandolo sul divano accanto all’enorme schermo al plasma e si aprì una bottiglia di vino. Prese le sigarette, uscì sul terrazzo e inspirò a pieni polmoni, mentre da sotto gli arrivano le voci un gruppo di ragazzini che tiravano calci ad un pallone nel parchetto con le altalene.



venerdì 22 novembre 2019

5. La notte di amore che salvò Luis




“È bellissimo!”, esclamò lei “fra poco sarà il tuo compleanno. Dobbiamo assolutamente attendere che scocchi la mezzanotte e poi fare subito un brindisi.” “Ma che brindisi e brindisi: domani mattina devo svegliarmi presto che al lavoro mi hanno cambiato il turno e poi con questi brindisi si sa come va a finire” rispose lui “finiamo che ci sbronziamo e domani farò pure tardi.” “Ma a che ora sei nato?” chiese lei sapendo che l’avrebbe comunque convinto “alle due di mattina del 22 marzo 1982 e quest’anno compirò 34 anni. Madonna quanto sono vecchio!”
Gli ultimi mesi erano stati carichi di nervosismo per Luis e Anna dal momento che non solo avevano dovuto traslocare due volte nel giro di pochissimo tempo, cosa che aveva creato malumori e piccole discussioni tra loro, ma si era anche aggiunta l’inquietudine che andava aumentando di giorno in giorno a seguito dell’allerta terrorismo diramata dai bollettini ufficiali emessi dall’OCAM e dal passaparola tra gli amici. I militari con caschi e tute mimetiche presidiavano non soltanto i centri del potere ma anche le piazze e le vie dove i brusselesi si incontravano per sorseggiare una Leffe o per acquistare la spesa della settimana. La città era sospesa in una atmosfera di angoscia e si interrogava quando e dove sarebbe successo. Il nome di Salah Abdeslam veniva sussurrato con circospezione e l’accento con cui veniva pronunciato di volta in volta migliorato.

In molti sostenevano che no, qui non sarebbe accaduto nulla: la NATO, le Istituzioni, le moschee controllate; no, qui no: un mantra ripetuto tante volte con lo scopo tacito di allontanare da sé l’ansia che pervadeva l’esistenza.

Inoltre, questa era l’opinione di tanti, c’era già stato il Bataclan a far tremare il cuore di tutti e a renderli sospettosi di ogni persona dai tratti vagamente nordafricani.
“Madonna, se sono vecchio!”, esclamò nuovamente Luis controllando l’orologio per vedere quanto mancasse al suo compleanno.
Stavano insieme da due anni e si erano incontrati qui a Bruxelles al ristorante asturiano dove lui faceva il cameriere. Era una calda serata di giugno quando Anna l’italiana, insieme ad un gruppo di spagnoli, aveva deciso di andare al Cabraliego per bere il famoso sidro del locale. Di lì a qualche settimana avevano affittato uno studio assieme. Luis aveva cambiato numerosi lavori ed ora controllava l’ingresso di un parcheggio non molto distante dalla zona delle Istituzioni e più precisamente tra le stazioni della metro di Maalbeek e quella di Art-Loi, proprio a due passi da rue de la Science. 
“Eddai che non facciamo tardi: solo un brindisi” le disse Anna accovacciandosi sul divano mentre Luis aveva già messo in un angolo la divisa della società di parcheggi per la quale lavorava in modo da averla pronta l’indomani. “Un brindisi solo, però. Ok?” le intimò tornando indietro dopo aver controllato la temperatura dello spumante Delhaize “365” dentro il congelatore. Arrivata la mezzanotte la tirarono fuori e tra un brindisi ed un altro se la scolarono al volo. “Senti” domandò allora lei “perché non apriamo anche quel rosso che hai portato il mese scorso da casa?” “Quale rosso? Ma non l’abbiamo già bevuto” replicò Luis cominciando a sentire l’effetto della bottiglia appena consumata. “Quello che ti ha regalato tuo sorella… come si chiama?” fece lei alzandosi dal divano e andando alla finestra per fumarsi una sigaretta. “Boh… prendiamo questo Nero d’Avola che hai comprato te a Natale” consigliò lui abbassandosi per afferrare la bottiglia che si trovava accanto alla piccola libreria colma di volumi.

Luis e Anna si sbronzarono e fecero l’amore tutta la notte.


E quando la sveglia puntata alle otto, giusto in tempo per farsi una doccia e scappare al lavoro per timbrare alle nove e mezza suonò, la spensero, e continuarono a dormire. Luis mancò così l’appuntamento con il vagone della linea 5, esploso mentre ripartiva dalla stazione di Maalbeek, che prendeva ogni volta che faceva il turno del mattino per andare alla società di parcheggi dove, il 22 marzo 2016, una notte di amore gli aveva impedito di andare. 


venerdì 15 novembre 2019

6. Come evitare di farsi derubare quando si cerca casa a Bruxelles





“Mara, mi raccomando: fai un favore a mamma e domani mattina vacci davvero alla polizia. Non fare come il tuo solito, va bene? ”
“Va bene… va bene… domani mattina ci andrò presto, non preoccuparti”, disse sbuffando e chiudendo la chiamata con la madre che si trovava in Piemonte tanto, pensava, non li riprenderò mai questi duecentocinquanta euro che, mannaggia a me, ho versato alla tipa.
Mara Sinclari era una giovane studentessa appena arrivata a Bruxelles per un master all’ULB e prima di arrivare in città e di cominciare le lezioni aveva provato a trovare una stanza condividendo nei vari gruppi su Facebook il seguente annuncio: “Sarò a Bruxelles per ragioni di studio dai primi di settembre 2019 e cerco una camera singola con spesa massima cinquecento euro, tutto incluso. Contattami in PVT.” Una signora gentile con un francese zoppicante le aveva immediatamente risposto dicendole di avere giusto giusto una cosa fatta per lei, che costava anche meno, e in una posizione assai comoda, chiedendole se potessero sentirsi già domani per i dettagli.
Quando Mara arrivò di fronte al grande portone dell’edificio della polizia di Bruxelles 1000, situato in pieno centro praticamente alle spalle della Grand Place, normalmente presidiato da due enormi uomini in divisa, con i vetri rettangolari sopra cui campeggiava la scritta “Division Centrale de Police - Politie Middenafdeeeling” uno dei due poliziotti all’ingresso le domandò cortesemente “Signorina: dove va?” ottenendo una risposta lapidaria “mi hanno truffata e dovrei fare una denuncia. Che cosa devo fare?”
Sul lato opposto della strada e, più precisamente, al caffè Capital, affollato come sempre di turisti giapponesi e americani, una signora leggeva un articolo di Jonathan Blizer sul New Yorker sorseggiando una varietà di caffè che arrivava dalla sperduta regione di Kaffa quando, alzando lo sguardo dal giornale, vide una ragazza bruna, alta e magra con i capelli raccolti in una coda gesticolare con i poliziotti e poi un secondo dopo sparire inghiottita dentro il palazzo. Mara salì infatti le poche scale che la separavano dall’accettazione, e raccontò quanto successo alla impiegata dietro il grosso vetro che le ordinò di compilare un modulo e poi di attendere di essere chiamata.
“Allora ci sei andata alla polizia?” le arrivò un messaggio su WhatsApp dalla madre al quale rispose subito infastidita “sì, sono qui proprio ora. Ti faccio sapere quando ho finito.”
La Divisione centrale della polizia era un via vai di persone e l’atrio, circondato da tre porte che si aprivano e chiudevano continuamente, veniva più volte attraversato da poliziotti alti e robusti che trascinavano ragazzi riottosi con le manette color alluminio. “Su, sbrigatevi. Andiamo! State vicini, così” bisbigliava un tizio in borghese con un cappello hippie ad un nero ammanettato.
“Sinclarì” gridò una voce che giungeva da dietro il grosso vetro dell’accettazione, “Sinclarì!” ripeté nuovamente la voce di una donna che invitava Mara ad entrare dalla porta a destra.
“Si accomodi”, disse un poliziotto gentile indicandole una sedia dietro una scrivania “che cosa è successo? Anzi… mi dica prima il suo nome, la sua data di nascita e la sua residenza qui a Bruxelles”.
“Mi chiamo Mara Sinclari e sono nata a Cuneo il 10/10/1995 e abito a rue Franklin, 49.”
“Che cosa è successo, dunque?”
Mara raccontò allora della signora gentile conosciuta su Facebook e delle sue insistenze affinché le inviasse il denaro per bloccare la stanza e disse anche delle rassicurazioni fornitele rispetto alla restituzione della medesima casomai la stanza non le fosse piaciuta.
“E di quanto era la caparra?” chiese scuotendo la testa il poliziotto.
“Duecentocinquanta euro”, rispose Mara vedendo arrivare un messaggio dalla madre.
“E poi che è successo?” domandò ancora il poliziotto voltando lo sguardo verso il computer dove annotava sconsolato le informazioni che raccoglieva.
“Niente. Quando poi ho mandato un’amica per vedere l’appartamento, così da decidere se prenderlo o meno, la mia amica si è trovata di fronte solamente un vecchio palazzo diroccato. E niente altro. Allora ho chiesto spiegazioni alla signora tramite la chat di Facebook e lei, prima mi promise che mi avrebbe dato i soldi indietro e poi dopo un po’ ha smesso di rispondere ai miei messaggi. Tutto qui. E ora?”
“E ora…” sospirò il poliziotto “e ora nulla… intanto registro questa denuncia ma credo ci sia veramente poco da fare. Ne ho sentite così tante di storie come queste: mai inviare denaro per bloccare una stanza. Mai! Lo consiglio sempre e mi dispiace tutte le volte sentire storie di ragazzi e ragazze come lei truffati in questo modo.”

venerdì 8 novembre 2019

7. La stagione dopo le piogge



“Emanuele, dove dobbiamo prendere la metro?” mi chiese Pietro continuando a sbattere sul bicchiere il tuorlo d’uovo che aveva zuccherato abbondantemente.
“Secondo me conviene camminare fino a porte de Namur e poi da lì prendiamo la due per andare verso il meeting. Comunque vediamo cosa dice Google Maps così siamo sicuri di non commettere errori.”

“Ok. Dimmi pure quando ci dobbiamo muovere così finisco la colazione ed usciamo”, mi rispose dopo aver dato l’ultima cucchiaiata al suo zabaione.

Il vecchio edificio coloniale si trovava all’incirca a metà della strada ripida che scendeva verso il fiume dove le donne con la bacinella sulla testa portavano a lavare i panni tre volte alla settimana. Con la fine della stagione delle piogge anche esso, al cui interno al primo piano avevamo vissuto sin dalla mia nascita, sembrava aver voglia solo di scrollarsi di dosso tutta quell’acqua caduta negli ultimi tre mesi. E sì che le piogge venivano augurate, desiderate e talvolta invocate in quanto la loro assenza era chiaramente un segno di sventura che si addensava per i mesi a venire. L’appartamento era minuscolo per poter contenere tutti quei cugini che l’avevano scelto come dimora abituale durante la settimana e aveva le assi del pavimento scricchiolanti e le mura da ritinteggiare ma, trovandosi a poca distanza dal centro e dalla scuola, conferiva un certo status alla mia famiglia che sovente lo faceva discretamente trasparire. Dall’altro lato della strada, in un complesso di case più moderne e recintato dalla lamiera ondulata viveva mia nonna, una signora alta, austera e con una grande fascia sul capo perennemente indossata a coprirle i capelli bianchi.

“Manu? Sei pronto? Guarda che fai tardi a scuola stamattina. Ti ho già preparato la merenda e la devi solo mettere nel cestino. Dai!”

“Sì, mamma. Sono quasi pronto. Finisco lo zabaione che mi hai preparato, mi metto il grembiule e sono pronto.”
Lo zabaione soffice in cui di tanto in tanto lei ci metteva del latte, quasi fosse un premio perché il giorno prima non mi fossi attardato con i pantaloni da indossare, con le scarpe da allacciare o con il giubbino ancora da allacciare, segnava per me non solo la fine della stagione delle piogge ma anche l’anno scolastico che ripartiva con le mattinate da passare dentro un’aula invece che scorrazzare a piedi scalzi sulla strada davanti casa dove poi, alle sei della sera quando il sole era tramontato da qualche minuto, la donna tuttofare sarebbe venuta a recuperami, chiamandomi per nome, in mezzo ad un nugolo urlante di altri bambini.
“Quante volte ti ho detto di non sporcarti tutto? Guarda come sei conciato, tutto nero! Se ti vede tua madre! Dai su muoviamoci!” si lamentava stringendomi per mano mentre si aggiustava il telo dietro le spalle che copriva suo figlio addormentato.
“Ancora un minuto, dai! Solo un minuto” frignavo mentre lei mi trascinava dentro casa dove intanto aveva preparato la tinozza per farmi il bagno caldo.
“Su, su, dai andiamo che tra poco arriva la mamma e se ti trova in questo modo sono guai. Per te e per me. Dai, su che dobbiamo fare il bagno, cenare e metterci a nanna che domani c’è la scuola.”
“Ancora un momentino, su!” cercavo di ribellarmi mentre ero ormai sulle scale dell’ingresso e quasi prossimo ad attraversare l’uscio.
“Lo vuoi lo zabaione domani mattina?” mi chiese lei addolcendo lo sguardo “guarda che se non entriamo dentro subito, dico alla mamma di non preparatelo.”
”Emanuele, ma a che ora è esattamente il meeting?” mi chiese nuovamente Pietro per poi aggiungere “ma cos’è che stavi pensando?”


“Allo zabaione, Pietro. Era buono quello che hai fatto?”